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Le risorse del nostro Paese, per un futuro meno nero

Da tifoso dell'Italia, prima ancora che da cittadino italiano, m'irrita profondamente vedere che tanti dei miei compatrioti non hanno alcuna fiducia nel proprio paese e quindi in se stessi. Travolti dal pessimismo, questi italiani commettono un errore del tutto simile a quello che commisero un trentennio fa: danno il futuro per scontato; lo considerano, con quel fatalismo che è forse la meno piacevole delle nostre caratteristiche nazionali, l'ineluttabile prosecuzione del presente.

Le difficoltà, pur gravissime, di questi decenni sono prese per sintomo dell'inarrestabile declino dell'Italia esattamente come, negli anni '80, si scambiò la festa mobile del craxismo (organizzata con soldi presi a prestito) per il segno della definitiva maturazione del nostro paese; del suo definitivo ingresso, o ritorno, nel novero di quelli che contano.

Dimenticano, molti di noi, che per le comunità come per i singoli non vi è nulla che sia ineluttabile o definitivo. Che, come scriveva Ortega y Gassett e adoro ripetere, prima di tutto a me stesso, “ogni istante è perfettamente nuovo”. Che il futuro dipende dalle scelte che compiamo ogni giorno, non è scritto nelle stelle e certamente non è la lineare prosecuzione del passato.

Solo dei mentecatti potrebbero negare che l’Italia sia, non solo finanziariamente, alla canna del gas. Solo altri mentecatti, che personalmente trovo irritanti quanto i primi, possono sostenere che la morte del Paese sia ormai decisa; che non vi sia nulla che possiamo fare per cambiare il nostro destino. Sono, i primi come i secondi, i nostri peggiori compagni di squadra; quelli che dobbiamo trascinarci dietro, costi quel che costi, per non retrocedere, come degli sciocchi o come dei piagnoni, senza neppure provare a giocare la partita del futuro.

Preso atto della situazione in cui siamo, dobbiamo renderci conto che non v’è nessuna ragione oggettiva perché non possiamo, nel volgere di pochi anni, far tornare a brillare, luminosissima, la stella dell’Italia.

Siamo, noi italiani e il nostro paese, un coagulo di potenzialità inespresse; abbiamo conservato risorse che pochissimi paesi al mondo hanno e che solo dobbiamo imparare a sfruttare. Questa è le verità oggettiva, ma è pure quel che dobbiamo obbligatoriamente pensare se vogliamo perlomeno provare a raddrizzare la baracca. Ripeterci cento volte il giorno quanto facciamo schifo, per così dire, non serve assolutamente a nulla. Diciamoci la verità, una volta per tutte, e proviamo a cambiare usando il moltissimo che ancora abbiamo.

Quando sento fare paragoni con altri paesi e popoli, oltre a prudermi le mani per il razzismo anti-italiano di certe affermazioni, mi viene da scuotere la testa.

Pochissimi, quasi nessuno, sembrano ricordare che, a parte la Germania, siamo l’unico paese europeo che abbia conservato la propria base produttiva. Che in Italia ancora si fa e si produce proporzionalmente più che negli Stati Uniti e in termini assoluti più che in Francia o in Inghilterra. Che in Italia resiste una multimillenaria cultura del fare che dovrebbe essere massima cura d’ogni nostra politica conservare e, eventualmente, aggiornare. Una cultura del fare, una capacità di produrre, che non s’inventa dall’oggi al domani e che è la base da cui possiamo ripartire.

Pochi si rendono davvero conto di quali siano le potenzialità del turismo. Siamo stati per secoli, prima ancora che esistesse la parola turismo, la principale meta di vacanze del mondo e lo siamo rimasti fino ai primi anni ’80. Tornare ad esserlo, e in un mondo in cui il turismo muove capitali enormi, incommensurabilmente più grandi di quelli che potevano portar con sé Byron, Goethe e i loro contemporanei, ci richiederà pure degli sforzi, ma è assolutamente possibile.

Una statistica di qualche anno fa (credo che le cose, se per caso, siano solo peggiorate) diceva che tutta l’italia meridionale totalizzava, nell’arco dell’anno, lo stesso numero di pernottamenti del Trentino-Alto Adige. Fare di meglio richiede solo di cambiare, ma non di stravolgere, la nostra mentalità; d’essere, in fondo, solo un poco più organizzati.

Agli amministratori locali del sud di fare un po’ meglio il proprio lavoro; agli albergatori di offrire servizi almeno decenti a prezzi non da rapina. Al ministero del Turismo di esistere.

La nostra agricoltura ha, per i propri prodotti di qualità, un mercato mondiale a disposizione. Si mangia italiano ovunque; se l’arrivo di un insipido vinello come il Beaujoulais, ogni inverno, è celebrato in tutto il mondo come un evento, non v’è nessuna ragion per cui non possa essere lo stesso per i nostri vini, formaggi e salumi. Per una mozzarella davvero fresca o degli spaghetti trafilati a regola d’arte ci sono milioni di consumatori, in tutto il mondo, disposti a spendere il giusto.

Chi conosce un poco di storia dell’economia, ricorderà che il tenore aureo delle monete romane andò gradualmente abbassandosi durante le storia dell’impero. Ai tempi di Romolo Augusto, insomma, d’oro nelle monete romane non ce n’era più. A determinare questa “svalutazione” era l’interscambio con la lontana Cina che avveniva tramite i Parti. Roma importava seta e altri prodotti di lusso dall’oriente e non esportava, in quella direzione, praticamente nulla.

Occorsero 4 o 5 secoli di un simile commercio, però, per arrivare a quel punto. A tenere in vita l’economia romana per mezzo millennio bastarono le esportazioni, diremmo ora, agro-alimentari: anfore di vino romano e di garum (la salsa fatta con interiora di pesce fermentate che era il ketchup dell’antichità) si trovano in tutta la Scandinavia, nelle steppe della Russia e nei deserti dell’Asia Centrale.

A queste nostre ricchezze aggiungiamo le rendite che ci derivano dalla nostra pozione geografica (l’Italia è pur sempre in Italia; in mezzo al Mediterraneo, corridoio privilegiato di scambi fra tre continenti) che dovrebbe consentirci di tornare facilmente ad essere il centro logistico che siamo sempre stati e, in un mondo che tanto valuta le proprietà immateriali, dal possesso del marchio Italia.

L’Italia resta l’Italia per anglosassoni e tedeschi, per i giapponesi ed i russi. Lo diventerà, se non lo è già, anche per i cinesi e gli indiani. Il bunga bunga può essere lo spiacevole tormentone dell’estate, ma, per tutto il mondo, l’Italia resta il paese dell’arte, della cultura e del saper vivere. Tutti, o quasi, vorrebbero essere almeno un po’, almeno per qualche ora al giorno o per qualche giorno l’anno, italiani. E’ qualcosa che si può dire solo di pochissimi altri popoli, forse di nessuno, ed è qualcosa di cui tanti miei connazionali non si rendono minimamente conto. Questo si traduce, all’atto pratico, nel fatto che milioni e milioni di persone, in giro per il mondo, sono dispostissime a pagare un po’ di più per qualcosa che porti con sé un pizzico della magia dell’Italia.

E’ il vantaggio competitivo che ci hanno lasciato 2.500 anni di storia tutta passata, si dica quel che si vuole, in serie A. In serie A noi siamo ancora, magari in zona retrocessione, e vi resteremo; ne sono assolutamente certo. Resta da vedere in che posizione di classifica, ma quello dipende solo da noi.

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