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La morte della memoria storica nell’età della tecnica

“L’animale si adatta solo nella misura in cui è mosso da sensi, e considera solo ciò che è vicino e presente nel tempo; perché non ha il senso del passato e del futuro. Mentre l’uomo, che è dotato di ragione, vede le cause delle cose, collegando intimamente il passato e il futuro con il presente”.

Così Cicerone, nei primi passi del “De officiis” (44 a.C.), sceglie, prima di tutte le altre facoltà umane, quella di ricordare gli antecedenti delle cose presenti e prefigurarne le conseguenze, come differenza specifica tra l’uomo e la bestia.

Nello scrittore latino si nota un certo tono ammonitore nei confronti della società in cui si trova ad operare; intellettuale completamente organico al contesto sociale, come solo nell’antichità possiamo trovare, si rivolge soprattutto alle nuove generazioni (oltre che ai dirigenti della vita politica), in modo che, recuperati i valori della grande Roma repubblicana (mos maiorum), riescano a modificare il presente, e di conseguenza anche il futuro.

In epoca moderna assistiamo a un progressivo abbandono della memoria storica. Nell’epoca in cui l’uomo borghese ha da alcuni decenni trionfato completamente, e ora, verso la fine del secolo XIX, si adopera continuamente a rafforzare il proprio potere, non c’è spazio per il passato.

Non c’è spazio per le paure del passato, la paura che possano ripetersi i vecchi autoritarismi dell’“ancien régime”; inoltre la conoscenza del passato, che richiede ricerca e tempo, non trova accoglienza nel mondo della fretta, dell’accumulo del capitale; si preferisce guardare positivisticamente al presente e al futuro, trascurando il passato: una contraddizione stupefacente.

È questa corsa sfrenata verso un presente-futuro di benessere senza precedenti, ha portato sì, a qualcosa senza precedenti, ma non al benessere, bensì a una guerra distruttiva e sconvolgente, capace di capovolgere in pochi anni il sistema socio-politico messo in piedi durante tutto l’800; una guerra che ha causato una quantità di morti mai contata prima, soprattutto tra le fila delle nazioni affrontatesi sul fronte occidentale (Germania, Francia e Inghilterra); una guerra che, alla caduta di un impero, ne ha sostituito un altro ancor più totalitario e feroce, costruito sugli scritti di Marx e mascherato dalle bandiere rosse.

Come si è arrivati a questo, e poi agli orrori della seconda guerra mondiale e dei regimi totalitari? La causa è la dimenticanza, si dimenticano le distruzioni delle guerre passate? O, anche se questa ci fosse stata,il lungo periodo bellico che va dal 1918 al 1945 sarebbe comunque stato un passo necessario per la presa di coscienza degli stati mondiali? E questa presa di coscienza, infine, c’è stata davvero?

Eric J. Hobsbawm, grande storico inglese del XX secolo, sostiene che, se non la Grande Guerra (vista come conseguenza necessaria della precedente età degli imperi) almeno la seconda si sarebbe potuto evitarla, grazie ad un'accorta e moderata politica delle nazioni vincitrici, memori, magari, delle equilibrate paci settecentesche in Europa e dei grandi diplomatici dell’800 come Bismarck e Cavour.


Ma, in questo caso, il pensiero di Hobsbawm tradisce una troppo ingenua fiducia nelle motivazioni della natura umana; tutte le guerre sono conseguenza necessaria delle intenzioni delle classi al potere in quel dato momento storico, e la borghesia di fine Ottocento e inizio Novecento, necessitava dell’espansionismo e dell’imperialismo per poter svilupparsi senza limiti.

Anche la memoria storica non avrebbe potuto influire, in quanto essa si modella sempre sulle ideologie di chi fa la storia nel presente. E, per quanto riguarda la presa di coscienza degli stati democratici dell’odierno Occidente, poiché le due guerre mondiali non sono state altro che le scosse di assestamento della borghesia tecnocrate mondiale, sono soltanto i frutti marci di quegli eventi disastrosi che, probabilmente, vengono allontanati sempre più dalla mente delle persone, in quanto conviene a qualcuno.

Proprio la volgarità e la ferocia degli eventi storici spesso fa sì che la storia possa configurarsi come un peso sulle spalle dell’individuo cosciente, che si sente sommerso sotto il peso della responsabilità storica: è proprio questo che, alla fine dell’800, faceva dire a Nietzsche, nella sua “Considerazione inattuale sull’utilità e il danno della storia per l’umanità”: “Osserva il gregge che pascola davanti a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia oggi”. In questa frase si legge una forte volontà di dimenticare la storia, la responsabilità che grava su ogni individuo, di abbandonarsi nell’oblio che può ridare nuova innocenza alla vita. Qui il bersaglio polemico di Nietzsche è lo storicismo, l’aspetto della storia descritta come danno per l’uomo, che lo tiene inginocchiato di fronte alla grandezza o la crudeltà degli esempi passati e gli tiene le mani legate davanti al presente, all’attuale, o lo trattiene in un avulso collezionismo archeologico fuori dalla vita.

Ma oltre al danno, l’utilità, come recita il titolo nietzscheano. Riusciamo oggi, noi uomini dell’età della tecnica, a scorgere l’utilità della storia? Lo stesso Hobsbawm cerca di capire per quali motivi le generazioni di fine ‘900 continuino a vivere in una sorta di “eterno presente”, constatando il quale è stato possibile, per molti pensatori, parlare di morte della storia nell’epoca postmoderna: essi sono dimentichi “dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella dei precedenti”; i motivi sono gli stessi di un secolo fa, soltanto enormemente moltiplicati.

Dopo la caduta definitiva dell’URSS e dell’economia pianificata, il “secolo breve” si è concluso con un rafforzamento spropositato del capitalismo; quindi ancora sete di guadagno, noncuranza della storia e delle proprie radici, attesa irrazionalistica verso un futuro più sereno e tecnologicamente più avanzato.
Nessuno ha esposto la condizione della memoria storica sull’attualità meglio di Barbara Spinelli ne “Il sonno della memoria”, osservando come sia cresciuto, dopo il 1989, il concetto di memoria nella mentalità dell’uomo contemporaneo e come questo concetto non trovi poi alcun riscontro nella realtà effettiva.

“I fatti riesumati non erano che “flatus vocis”, il cui significato sembrava destinato a perdersi”; si parla tanto di memoria al giorno d’oggi, vengono ricordate stragi, olocausti, calamità naturali, eppure non si fa il necessario per evitare che queste accadano in futuro. Quasi il contrario di ciò che accadeva prima.

L’uomo del nuovo millennio “ricorda, ma non è capace di cadere nel tempo, e riconoscerlo”, gli si sente estraneo, non riesce a edificare sulla memoria. Così si commemorano gli ebrei, ma si discriminano gli immigrati sotto forme di nuovo razzismo; si commemorano i terremoti, gli tsunami, e si continua a costruire in modo insicuro in nome della speculazione; insomma, l’uomo non si sente il frutto delle proprie radici.
 

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