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’La geografia delle piogge’ di Paolo Grugni

'La geografia delle piogge' di Paolo Grugni (Laurana Editore, collana Rimmel, pag.176 a euro 14,50) racconta di alcune realtà di un’Italia in caduta libera, entro dinamiche che l'autore segue e di cui scrive da anni.
 
Diversi elementi che l’autore ha iniziato a tirare fuori in precedenti pubblicazioni, qui tornano e si mescolano.
Il protagonista, Mauro Casagrande, è a modo suo il centro di tutto, è lui che racconta, è suo il punto di vista dominante eppure è un personaggio che ha deciso un drastico cambio di vita, tende a preferire la compagnia del proprio cane Elvis, degli umani ne fa a meno il più possibile pur restando ‘sintonizzato’ col mondo delle ‘notizie’. In effetti è un romanzo dove entrano ed escono notizie, qualunque lettore – avvezzo o meno a seguire news – se ne accorge molto presto.
 
Ci sono due macro tematiche entro cui si dipana la trama principale, di fatto diramata tra il caso di una donna che ha ucciso il figlio appena nato handicappato e un altro caso, a coinvolgere un parente di Casagrande finito nelle reti della malavita per portare avanti un bar. Senza voler svelare troppo, il lettore si trova spesso a un bivio, si entra e si esce da una trama e da un’altra sebbene nel complesso il percorso narrativo è unico – esattamente com’è unico il punto di vista e la voce narrante – eppure sono due storie separate, tenute incollate dal protagonista presente in entrambe con due ruoli diversi. Per il resto, i mondi non s’incrociano. La malavita diramata sugli esercizi commerciali e i titolari costretti a indebitarsi fino a dover cedere proprio l’attività. La scelta di una madre che ha tolto la vita a un figlio senza futuro né presente.
 
Equilibrismi difficili, tra tematiche delicate e casi di cronaca che entrano ed escono.
 
In un qualche modo l’impressione a lettura ultimata è che Casagrande abbia altro da dire, che le sospensioni siano sia necessarie quanto ingiuste, che in questo libro la cruda spietatezza che Grugni ha tirato fuori in precedenti storie, si sia sciolta in una narrazione stilisticamente riconoscibile, che galleggia tra alienazioni, distanze, e assenze di speranze generali – c’è chi nemmeno se lo chiede, cosè e dov’è, la speranza, come Emilia la rossa, o chi ogni tanto ci pensa come lo stesso protagonista ma i pensieri scivolano inesorabili nelle profondità senza eco.
 
La struttura è fluida, sciolta quanto basta a far sì che ogni parte di questa storia sia abbastanza autonoma per essere un’entità comprensibile in ogni caso, che si sia letto il ‘prima’ e si proceda nel ‘dopo’ ma anche che ci s’interrompa. La narrazione è divisa in capitoli a loro volta scanditi da parti con titoli in caratteri maiuscoli. La cronologia a ricordare il tempo che passa è affidata all’inizio di ogni capitolo. I dialoghi diretti sono – come già in precedenti opere di Grugni – privi di indicatori formali, riconoscibili solo per alcune maiuscole e punteggiatura cadenzata, le battute dirette si fondono con la narrazione in prima persona sbeccandone il ritmo.
 
La predilezione di Grugni per le parole che evocano contesti, per la ricerca di modi per narrare che non siano immediati bensì evocativi, originali è un tratto caratteristico che emerge anche in ‘La geografia delle piogge’, non sempre riesce a colpire quanto probabilmente potrebbe. La “stanza depilata da ogni oggetto” nell’attesa di svelare l’incontro è un pugno meno forte di quanto forse ci si aspetta.
 
Anche la disfatta di ogni cosa arriva addosso senza fretta, strisciando. C’è una sorta di normalità, o meglio: di abitudine – in quello che a tratti Casagrande enuncia, seppur brevemente, e non saprei dire se è la narrazione in sé, a favorire quest’impressione, o le precedenti storie dell’autore che già ampiamente hanno radiografato vite diverse per arrivare spesso a inquadrarne le insensatezze, i crolli in corso e quelli in arrivo.
 
“Ma dove cazzo vivo, in che cazzo di paese viviamo. Basta mi guardi intorno: sono tutti assassini, nessuno escluso. Tutti hanno avvelenato, corrotto e degradato questo paese, e alla fine l’hanno ucciso. Il cadavere galleggia al centro del Mediterraneo con le coste rose dai topi che vi hanno scavato la tana.”
 
Una sottotraccia che aleggia per tutta la narrazione riguarda la passione del protagonista per i libri in particolare per quelli ‘non nuovi’ che rintraccia ovunque possibile, in qualunque stato, per rivenderli in aste online a prezzi stracciati. Da questa attività, che è parte della nuova vita di Casagrande, il lettore rintraccia lungo la narrazione estratti di dediche e piccoli scritti lasciati nei libri dai precedenti proprietari. Si tratta di dediche, tutte di natura amorosa, a raccontare di storie in corso, interrotte, abbandonate, recriminate, concluse, ricordate. Sono parole rimaste impresse in mezzo ad altre parole, storie nelle storie che Casagrande riunisce con l’intenzione di farne un libro (o così spiega – “il libro di dediche, poesie e lettere d’amore” scritte dentro i volumi stampati).
 
"A Lori
Non dovresti fumare in ogni foto
svaghi contro l'intonaco senza cielo.
Cercavo un po' di fresco
ma ancora emergi da quei bollori.
tuo Simone"
 
Sebbene il punto di vista del protagonista sia riconoscibile – non troppo sottolineato o evidente, ma riconoscibile sì – rispetto alle due macro tematiche centrali, c’è ampio spazio perché il lettore possa annusare anche altre posizioni, i pro e contro appaiono e scompaiono, ci sono perché fanno parte del mondo, non sono il centro della scrittura.
 
Non è una storia in cui ci aspetta una ‘fine’, che in effetti non c’è. Casagrande torna da dov’è venuto, avvolto dalla nebbia della sua vita e da quelle attorno. E così gli altri personaggi. In altre trattazioni, a seguire la ‘verità’ di un condannato che si svela a un altro personaggio inimmaginabile – non al suo avvocato, non al giudice, non ai parenti, non al compagno di cella – un po’ com’è in questo libro – a seguirla lungo il plot, si finisce per trovare una strada, un’assoluzione, o comunque una ‘fine’ a spiegare, a sottoporre ‘attenuanti’ o addirittura ragioni più che sufficiente per comprendere il gesto (il fatto, l’azione commessa poi condannata dalla legge). In questo libro no. Nessun colpo di scena, nessun cambiamento di traiettoria, nessuno scherzo.
 
“Partiamo per Milano subito dopo pranzo. O, meglio, subito dopo che la madre ci ha ricordato che solo vedendoci sposati potrà morire in pace. Quasi quasi le faccio il favore.”
 
Consiglio il Grugni ironico, diretto, che si schianta nelle cose come sono.
 
“Mi sveglio con qualcosa che mi gratta dentro, alla fine capisco che quello status di quieto vivere che avevo costruito a protezione del mio incedere fragile sta per essere sgretolato e che non so da che parte ricominciare per difendermi. Poi decido di affrontare la prima grana e chiamo mio padre”.
 
E anche quello che non gira troppo attorno alle cose, le butta come sono, piacenti ma soprattutto non piacenti che siano.
 
“Sono tutti in cerca di un domani migliore, io sono in cerca di uno ieri migliore. Ho bisogno di un passato diverso, che non mi porti dove sono oggi, che mi permetta di costruire qualcosa che lasci traccia dietro di sé. Invece non ho saputo fare nulla che valesse la sofferenza di vivere. Se si capisse che la depressione è una reazione alla pressione nessuno si aspetterebbe più niente e accetterebbe quello che non ha e di essere quello che non è. E il tempo manca quando meno te lo aspetti”.
(estratto scelto per la quarta di copertina, una tra le parti che ho preferito).
 
***
Immagine in apertura scattata in treno. Bg.

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