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La “carrera” di Miguel, maglia nera del Giro d’Italia

Centocinquantasettesimo. A 5 ore, 27 minuti e 6 secondi dal primo, Ryder Hesjedal. Che a 38,342 di media fa – più o meno – 210 chilometri di distanza. Come dire che, quando Hesjedal conclude il suo Giro d’Italia sotto il Duomo di Milano, lui sta affrontando il Tonale e gli mancano ancora l’Aprica, il Mortirolo, lo Stelvio e la crono. Non poco, anche se si tratta pur sempre di dettagli, statistiche, numeri.

 

Miguel Minguez Ayala è la maglia nera del Giro. Ultimo. Ultimissimo. Oppure primo, a cominciare dal basso. In fondo, anche questo può apparire solo un punto di vista, sportivo e soprattutto filosofico, o forse spirituale. E se dopo 3514,1 chilometri Hesjedal riesce a staccarsi dal secondo, Joaquin Rodriguez, di 16 miseri secondi, Minguez allontana il penultimo, il suo compagno di squadra nell’Euskaltel, Adrian Saez de Arregui, di 8 minuti e 53 secondi. Una distanza di tutta sicurezza. Anche se lui spiega che dalla Danimarca sono partiti in 198, quindi, a voler essere fiscali, ne avrebbe 41, seppure invisibili, dietro di sé.

Minguez ha 23 anni, è nato a Bilbao, ma è cresciuto a Villambistia, un villaggio fra Belorado e Villagrana de Oca, lungo il Cammino di Santiago di Compostela, una quarantina di chilometri a est di Burgos, una cinquantina di abitanti, la fontana dei pellegrini, la Chiesa di San Rocco, un tratto di strada romana. Lì si passa, lì si beve, lì si sospira, e da lì si prosegue.

Ha proseguito anche Miguel. Da lì è andato ad abitare a Burgos. Papà, mamma e sorella: nessuno che si sia dedicato allo sport. Lo ha fatto lui con il ciclismo, una passione nata proprio sul Cammino: dove ha imparato a pedalare su una mountain bike, inseguendo, superando, anticipando i pellegrini. Molto di quel pedalare e di quel pellegrinare gli è rimasto dentro.

Gli piaceva correre a piedi. Ha continuato a correre in bici. Forte, non fortissimo. Raramente primo. Da piccolo non voleva fare il corridore, né quello a piedi né quello a pedali, ma la guardia forestale: “Il senso della libertà, l’amore per la natura, lo spirito della solitudine, il desiderio delle montagne” se li è comunque goduti anche da grande, e se li gode ancora. Un anno all’università, educazione infantile, “che era possibile conciliare con lo sport, solo che mi interessava meno di quanto mi intrigasse il ciclismo”. E così: ciclismo, e basta.

La prima corsa a 14 anni, un circuito urbano: arrivato. La prima vittoria a 16 anni: finale in leggera salita, primo da solo. Dilettante con qualche vittoria, professionista a 19 anni nella basca Orbea, a questo Giro (il suo secondo: nel 2011 è arrivato 135°, a 4 ore, 2 minuti e rotti da Alberto Contador) ha sputato l’anima, ma non ha mai avuto la tentazione di ritirarsi. “Io non mi ritiro. Semmai, mi può ritirare solo il Giro”. Tre fughe, nessuna arrivata al traguardo. Non si definisce scalatore (“Altrimenti non sarei arrivato ultimo in classifica”), ma neanche velocista (“Peso la metà di Cavendish”), nelle classiche non è un drago (“Due abbandoni causa cadute al Fiandre, un fuori tempo massimo alla Roubaix ma con la soddisfazione di entrare comunque nel velodromo, come gli altri”). Però è un buon gregario, i suoi direttori sportivi lo considerano “un bravissimo ragazzo”, che non è esattamente il giudizio che si dà ai campioni. Ma, almeno nella vita giù dalla bici, è di gran lunga meglio così.

Minguez confessa che non ha mai fatto Vuelta e Tour, spiega che finora le salite più dure sono – nell’ordine – Zoncolan, Stelvio e Colle delle Finestre, confida che proprio sul Colle delle Finestre al Giro 2011 era in fuga, stavolta davanti e non dietro, punto di appoggio per il suo capitano Mikel Nieve, dice che il suo sogno è vincere, prima o poi, una tappa, e racconta che da questo Giro si porta a casa la sofferenza patita, ma anche l’amicizia stretta con i compagni proprio nei momenti di maggiore difficoltà.

Alla fine della crono di Milano, ha ricevuto, come maglia nera virtuale e virtuosa, due bottiglie di vino: un rosso delle cantine di Francesco Moser, sull’etichetta l’immagine dello Sceriffo in maglia iridata, e un prosecco battezzato “Amets” (che in basco significa “sogno”) dei vigneti di Marzio Bruseghin. E si è commosso.

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