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La bufala della "ripresa" spagnola e la realtà della deflazione

Il governo italiano si appresta a seguire l'esempio spagnolo: tagliare i diritti per non avere alcuna seria ripresa. E Renzi rischia grosso.

Nei telegiornali e nelle riviste economiche più patinate del mondo (a partire dal Financial Times) si continua a parlare di ripresa dell'economia spagnola, a seguito dell'uscita del Paese dalla recessione dopo un flebilissimo +0,1% registratosi nel terzo trimestre del 2013. 

È sempre più presente la tentazione - anche nel mondo giornalistico italiano - di additare alla pigra Italia l'esempio virtuoso della Spagna, che "sta uscendo dalla crisi". Queste narrazioni sarebbero suggestive se non fossero supportate da alcun fondamento reale.

È vero che la Spagna ha ottenuto (ed ora vedremo a che prezzo) un segno "più" davanti al Pil dopo un biennio di stallo, ma per quanto riguarda l'indice più importante (quello di disoccupazione) la situazione rimane drammatica: il tasso ufficiale rimane inchiodato al 25,79%, con punte superiori al 40% in Andalusia. E la debolezza della ripresa non fa presagire che ci saranno chissà quali miglioramenti nel medio periodo.

Una ripresa, quindi, senza incremento dell'occupazione e conseguita unicamente tramite la rinnovata capacità di esportare del paese del toro. Le politiche di austerity hanno infatti dispiegato gli effetti voluti: le importazioni sono crollate (così come i mercati domestici) e, grazie all'abbattimento del costo del lavoro, esportare è diventato molto più conveniente rispetto a qualche anno fa. 

Ancora una volta, come del resto dimostra la Germania, la competitività non si fa con i mitologici "investimenti" che ormai languono in tutto il mondo, ma con una radicale opera di taglio della domanda interna, con la sforbiciata dei salari. Il governo conservatore di Rajoy, nell'estate 2012, ha inaugurato il nuovo corso con un piano lavoro che, in alcuni punti, potrebbe essere copiato dal neo-segretario PD Matteo Renzi, in cerca di facili consensi dal mondo industriale. Ecco cosa prevedeva il piano-Rajoy:

  1. Rendere i licenziamenti più facili per i datori di lavoro, diminuendo sensibilmente l'indennizzo in caso di licenziamento senza giusta causa. Un'azienda in utile può licenziare anche solo con tre trimestri di calo consecutivo nel giro d'affari, "cavandosela" con un indennizzo a prezzo di saldo (si badi che il governo Monti ha già iniziato l'opera, e non a caso ora si torna a parlare di articolo 18);
  2. Sostanziale superamento dei contratti collettivi: l'imprenditore, in caso di difficoltà tecnico-organizzative o economiche, può scavalcare il contratto nazionale, offrendo salari più bassi
  3. Licenziamento più facili in casi di assenteismo
  4. Sostanziosi sgravi fiscali per le imprese che assumono (anche con contratti a tempo determinato)

Insomma: licenziamenti facili, salari bassi, sgravi per le imprese anche se creano occupazione di bassa qualità e temporalmente precaria. È evidente che una tale ricetta, sommata al ristagno ormai tradizionale dei salari nel settore dei dipendenti pubblici, non può che creare un esito: deflazione assicurata

Il calo dei salari indotto dalle tanto decantate "riforme" (che favoriscono i soliti noti) non fa altro che far calare la domanda interna, e con essa i prezzi. Ed un paese in deflazione certamente non può compensare la recessione interna con l'export, come insegna il Giappone da due decenni.

La soluzione di "tagliare i diritti per la ripresa" non solo appare agghiacciante da un punto di vista sociale, ma demenziale da quello economico. Se Renzi dovesse riproporre queste ricette, il suo avvenire politico potrebbe essere meno roseo di quanto si creda.

 

 

Foto: Gaelx/Flickr

 

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