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La Turchia di Erdogan, tra islamizzazione forzata e repressione

Si assiste in questi giorni in Turchia a un’escalation di tensione politica e sociale, i cui presupposti erano nell’aria già da lungo tempo. Le impalcature dell’ordinamento repubblicano laico della Turchia, garantito a lungo dal ruolo delle forze armate, da qualche anno scricchiolano visibilmente, sotto i colpi della scure dell’uomo forte del Paese nell’ultimo decennio, fondatore del partito islamico AKP, Recep Tayyip Erdogan.

L’esponente politico dalla carismatica personalità ha saputo nel corso degli anni circoscrivere il ruolo delle forze armate, unire un consenso di massa nell’interno agricolo dell’Anatolia al sostegno della borghesia industriale e finanziaria soddisfatta delle politiche neoliberiste messe in atto e della crescita economica galoppante, mentre molto gradualmente attuava una rinnovata confessionalizzazione della società rispondente al proprio disegno ideologico tradizionalista e patriarcale. Probabilmente la combinazione tra islamizzazione della società, conflitti interni fra i suoi esponenti più in vista e frenata dell’economia, sancendo il distacco con importanti settori delle élites urbane, creava il terreno per le rivolte del 2013 e per il succedersi di una serie di inchieste contro esponenti del Governo e dell’AKP da parte di una magistratura tradizionalmente piuttosto sottomessa al potere politico.

(Foto: Wikimedia)

Le rivolte, diffusesi a macchia d’olio a partire da una mobilitazione di carattere ambientalista circoscritta a un quartiere di Istanbul, erano animate da vasti settori di società civile di eterogenea estrazione sociale e orientamento politico (sia pure con una predominante presenza organizzata dell’estrema sinistra rivoluzionaria) che scendevano in piazza contro il Governo a Istanbul e nelle altre principali città del Paese, mescolando istanze politiche di rivendicazione della laicità dello Stato e di lotta alla corruzione con le istanze sociali dei ceti popolari. Come tante volte avevano fatto i militari nel corso del secolo passato, la risposta alla domanda di cambiamento si è sostanziata in una violenta repressione delle proteste, sfociate in scontri di piazza diffusi con un bilancio di nove morti e migliaia di feriti. Poiché il movimento non era riuscito ad aprire sufficientemente le contraddizioni dell’apparato di potere edificato da Erdogan e soffriva della mancanza di un’unitaria direzione politica, non riusciva ad ottenere il sostegno aperto delle forze armate, né il consenso dei settori più tradizionalisti della popolazione per dare al Governo una spallata decisiva. Erdogan invece, pur acuendo una spaccatura verticale nella società, si riusciva a rafforzarebeneficiando dell’ondata repressiva e l’anno seguente, malgrado una serie di scandali di corruzione che avevano colpito anche personaggi a lui molto vicini, otteneva alle elezioni locali un soddisfacente 42,89% per le forze che lo sostenevano e, poco tempo dopo, da Primo Ministro che era, viene eletto Presidente della Turchia, per la prima volta scelto con elezione popolare diretta.

(La spaccatura politica della Turchia, come emerge nelle elezioni locali del 2014. Immagine: Wikimedia)

Ancora due elementi del complicato scenario turco vale la pena citare. Da una parte, l’emergere del conflitto tra il nuovo primo ministro Davutoglu ed Erdogan, sia per la volontà di quest’ultimo di cambiare ora il sistema politico in senso presidenzialista, sia per la sua frenata nelle trattative di pace con i guerriglieri curdi di ispirazione marxista del PKK, che pure da primo ministro aveva attivamente sostenuto. Dall’altra parte, il tentativo turco di esercitare una politica di potenza nel Medio Oriente e nel mondo islamico, in aperto conflitto con l’Iran e con l’Egitto di Al-Sisi, prendendo posizione in tutte le crisi locali con sostegno a movimenti islamici sunniti più o meno radicali e allontanando la prospettiva di un’integrazione nell’Unione Europea.

Quanto detto può aiutare a dare un’idea dell’intricato quadro in cui si collocano gli avvenimenti dell’ultimo periodo: feroci recrudescenze di repressione contro l'autonomismo curdo; permanente (sia pure ora in parte affievolito per le pressioni internazionali) passaggio di integralisti musulmani lungo la frontiera con la Siria, a rafforzare organizzazioni come Al-Nusra (branca siriana di Al-Quaeda) e Daesh; attacchi violenti degli ultra-nazionalisti – dall'inizio coinvolto in un complesso rapporto di amore e odio con il Governo islamico – contro la sinistra rivoluzionaria e le minoranze etniche e religiose, con una malcelata complicità delle istituzioni. E infine l'intensificarsi dell'attività di lotta armata di alcune componenti della sinistra rivoluzionaria, che una lunga storia di repressione militare, poliziesca e degli squadroni della morte nazionalisti, con un velato sostegno delle intelligence della NATO, ha sospinto da lungo tempo nella clandestinità. Il fallimento delle proteste popolari di due anni fa nel porre fine al mix di Islam politico e autocrazia che caratterizza la figura di Erdogan, il clima di instabilità e il perdurare della caccia alle streghe contro i rivoluzionari – in un Paese in cui, val la pena ricordarlo, solo da due anni la stampa di Marx o di autori turchi come Nazim Hikmet non è illegale – spiegano probabilmente il nuovo impulso verso la via armata di organizzazioni il cui effettivo sostegno nella società, molto diffuso negli anni ’70, è oggi difficile da appurare nella consistenza numerica proprio per il loro carattere clandestino. 

Eppure, manifestazioni di solidarietà ai due combattenti caduti nell’attacco al giudice Selim Kiraz da essi ritenuto responsabile dell’insabbiamento delle indagini sulla morte violenta di Berkin Elvan (durante la repressione delle proteste del 2013) si sono viste in questi giorni nei quartieri popolari delle principali città turche e nelle università, oltre che nelle comunità all’estero, mentre nuove retate di sospetti fiancheggiatori colpivano decine di persone in tutta la Turchia, tra cui membri del Grup Yorum, band musicale di fama internazionale, di cui alcune componenti già in passato avevano denunciato di aver subito torture da parte delle forze di sicurezza.

Questo è il quadro fosco della Turchia di oggi: Paese da sempre crocevia di popoli, lingue e culture, ancora profondamente spaccato nelle componenti che nel corso del XX secolo si sono periodicamente scontrate – nazionalismo laico, islam politico e sinistra rivoluzionaria – e in un difficile bivio fra strade fra loro difficilmente compatibili, mentre la repressione lascia poco spazio di sviluppo e confronto alla luce del sole alle istanze di cambiamento pur diffuse nella società e soprattutto fra i più giovani.

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