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La Morte incrementa gli ascolti?

Da Quinto Potere a Live! la cinematografia ha sempre contato sulla voglia di sapere davvero tutto di chi appare in tv, dai bisogni primari alle situazioni intime...fino alla morte. L’antropologia inoltre ci rivela che culturalmente il trapasso non è mai stato un tabù...
 
Il 6 Marzo è uscito nelle sale italiane il film Live! con protagonista Eva Mendes. La storia controversa e molto discussa è quella di una produttrice esecutiva in cerca del picco di ascolti per il suo network, che decide di lanciare un reality show in cui sei concorrenti si sfidano per vincere cinque milioni di dollari. A dispetto de La Talpa o della Fattoria al posto di prove fisiche o psicologiche Live! propone una lotta contro la morte attraverso il gioco senza scampo della roulette russa.
 
La morte di una persona in diretta tv quindi, la quintessenza dell’invasione della privacy e del politicamente scorretto che sembra piacere tanto non solo a chi non si accontenta più di spiare la vita di reclusi per i più svariati motivi sociologici, ma anche al popolo di internet. Basta recarsi su qualsiasi motore di ricerca per scoprire in effetti che il video mezzo truffaldino, mezzo illegale dell’esecuzione di Saddam Hussein è stato il più visto in assoluto e il più cercato dal dicembre dell’anno scorso. Se poi la trama di Live! non vi sembra del tutto nuova c’è da dire che ci pensò già Sidney Lumet nel 1976 ad incrementare gli ascolti del suo "Network" (in Italia "Quinto Potere") facendo annunciare al protagonista anchor man Howard Bale il suo futuro suicidio in diretta tv. In quella occasione però la satira e il nonsense raggiungevano il picco più alto quando Faye Dunaway - Diana Christensen, in cerca di un salto di carriera, commissionava l’omicidio dello stesso Bale ad un gruppo di terroristi di estrema sinistra, anche loro detentori di uno show, in una specie di guerra di ascolti portata all’esasperazione. In 33 anni dunque il sottile confine fra ciò che può essere mostrato e ciò che deve essere omesso sembra ancora essere motivo di studio da parte di chi lavora nell’industria dell’intrattenimento e, considerando i telegiornali nazionali e le infinite sanzioni causa filmati mandati in onda in momenti inappropriati, anche di quello dell’informazione odierna. Esiste ancora un confine che non va valicato? E se sì quale?
 
Alcuni studi antropologici che fanno riferimento alle tradizioni dei rituali post-mortem possono dare un’idea della liberalizzazione con cui il tema veniva affrontato all’inizio del secolo scorso in diversi contesti geografici e storici.
Una consuetudine già piuttosto nota ai più riguardava il "lamento funebre" ovvero una vera e propria tecnica del piangere che accompagnava il defunto durante il tragitto verso la chiesa, contrariamente a quanto si possa pensare era una lamentazione completamente studiata dalle pause alle urla, dalle azioni, ai silenzi. Un vero e proprio codice cerimoniale già riscontrato nell’antica Grecia e che in Italia si diffuse nell’800 dalla Val di Susa al Veneto, al Senese, in Sicilia e in Sardegna e continuò soprattutto in Calabria fino a tutti gli anni ottanta. Anche il banchetto funebre prese piede nello stesso periodo, un momento di convivialità e giocosità che prevedeva un posto a tavola per il defunto e del cibo che poteva essere consumato solo se portato dall’esterno e cucinato da amici e parenti.
Recentemente reso pubblico da Francesco Faeta, e più vicino al discorso della privacy visiva, è l’uso di fotografare il defunto insieme ai parenti vestiti a lutto, con la bara posta in verticale, come in una foto di famiglia. Si è risaliti nei primi anni del novecento ad una variante singolare di questa usanza nell’alta Irpinia: un giovane defunto, ben vestito e pettinato, con gli occhi aperti, seduto in mezzo a coetanei e parenti, vestiti a festa.

 
Insomma la condizione del defunto o la concezione della morte in tutta Italia hanno subito certamente dei cambiamenti durante i secoli, ma forse il bisogno di una conoscenza sempre più vicina e priva di un certo tipo di intimità del ciclo finale della vita non è del tutto da condannare o da censurare. Certo non si può escludere che la morte incutesse paura, ma rendendola parte di riti attivi che coinvolgevano spesso anche quelli religiosi come le processioni, si tentava probabilmente di accettarla e capirla, rendendole omaggio in qualche modo, per non renderla troppo lontana per chi era rimasto. (Fonti dal libro: "Italiani" di Gian Luigi Bravo).
 
Qual è il limite, se c’è, nel mostrare la morte, il tipo di morte, la violenza, gli incidenti, le immagini di attacchi terroristici e qual è il pericolo in un paese in cui gli adolescenti si danno fuoco per noia, di mostrare una roulette russa come espediente in un reality show, che di reale proprio non ha nulla?
 
Non è tanto la morte quanto la modalità che non va mostrata? Eppure i numeri di chi ha visitato video su torture, violenze o esecuzioni sono reali e concreti. C’è ancora un limite per cosa si ha il “diritto” di vedere?
 
 

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