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L’Italia in serie B. Quale ricetta per la ripresa?

Questo, perlomeno, ha deciso l'agenzia di rating americana Standard & Poor's. E' la costatazione delle difficoltà che ha di fronte la finanza del nostro continente, prima che quella del nostro paese. Una crisi da cui si può uscire in un solo modo: proseguendo sempre più celermente, come auspicato oggi dal Presidente della Repubblica, lungo il cammino dell'unione politica dell Europa.

Non sono particolarmente incline a dar credito alle teorie complottiste, ma capisco quanto possa lasciare perplessi il declassamento deciso da Standard & Poor’s di una buona fetta dei paesi dell’area Euro e, in particolare, dell’Italia.

Premesso che le agenzie di rating non sono degli oracoli (e la storia recente, da Enron all’Argentina e a Lehman Brothers, lo dimostra) e che seguono, piuttosto che anticipare, i movimenti di mercato (gli analisti fanno notare che i prezzi dei titoli italiani incorporano già un rischio superiore a quello espresso dal giudizio di S&P), non bisogna però sottostimare l’importanza delle loro decisioni: i loro voti sono lo strumento cardine in base al quale molti investitori istituzionali decidono come collocare i propri capitali e molti tra i fondi più conservatori rifiutano, per statuto, di acquistare titoli con un rating inferiore ad A.

E’ dunque una decisione con rilevanti conseguenze per le economie dei paesi che ne sono stati coinvolti (e in particolare per quelle aziende che a queste economie sono più direttamente collegate che si vedranno, nelle prossime settimane, abbassare automaticamente il proprio voto) , quella dell'agenzia di rating e viene da chiedersi, pensando proprio all’Italia, cosa possa essere accaduto, negli ultimi mesi, per giustificare un abbassamento di ben due gradi del suo voto, passato ora ad un BBB+ che è solo due gradini al di sopra del livello dei titoli spazzatura.

Il debito italiano è forse più a rischio ora, mentre il pareggio di bilancio non appare più una chimera, di quanto non lo fosse a novembre? Gli ottimi risultati delle ultime aste di titoli di stato non contano nulla? Le liberalizzazioni, che potrebbero contribuire ad aumentare significativamente il nostro PIL, neppure? E ancora, perché un paese in via di rapidissimo indebitamento come la Gran Bretagna, con un deficit di dimensioni greche, continua ad avere un rating a tripla A?

E’ fin troppo facile immaginare una regia anglo-americana (o perlomeno di certi circoli finanziari di questi due paesi) dietro questo vero e proprio attacco all’Euro, condotto, per di più, con perfetto tempismo, proprio quando si iniziavano a intravedere i primi chiarori di una possibile uscita dalla crisi del debito.

Sono dubbi che è lecito avere, ma che non possono farci dimenticare che è tutta nostra, europea, l’origine prima dei nostri mali. Siamo noi europei che continuiamo ad avere una moneta che non ha alle spalle una banca centrale dotata di tutti gli strumenti di cui dispongono le sue controparti inglesi e statunitensi. Siamo noi che combattiamo, per scelta nostra, con le mani legate, sui mercati finanziari.

Stati Uniti, Regno Unito e Giappone, indebitati quanto e più di noi europei, si limitano a stampare moneta, per pagare i propri debiti e finanziare la propria economia. Una ricetta che è piena di controindicazioni, intendiamoci, e che comporterà una sostanziale svalutazione di sterlina, dollaro e yen, perlomeno rispetto alle monete dei paesi emergenti, oltre a creare le premesse per un’ondata inflativa che sicuramente, prima o poi, arriverà, ma che appare l’unica possibile anche per noi. Una cattiva medicina che, malgrado i patemi dei tedeschi, che hanno visto morire d’inflazione la repubblica di Weimar, dobbiamo al più presto rassegnarci a prendere. Dovremo farlo con moderazione, cercando di minimizzare le conseguenze che avrà a lungo termine, ma non abbiamo altre scelte: nel lungo termine, altrimenti, potremmo essere finanziariamente morti.

E’ ovvio, però, che non si possa pensare ad una trasformazione della BCE in prestatore d’ultima istanza, per i debiti sovrani, senza arrivare ad un ancor più completo coordinamento delle politiche di bilancio dei singoli Paesi europei; senza che vi sia, si usi poi l’espressione che si preferisce, un ministero europeo delle finanze. Con il suo ministro.

Un ministro delle Finanze per prendersi cura delle politiche economiche e un ministro degli esteri per dare, finalmente, al nostro continente, una voce unica ed autorevole sulla scena mondiale; per non evitare che l’Europa si riduca, nel giro di un paio di decenni, ad essere, anche dal punto di vista economico, quel nano che è oggi dal punto di vista politico.

E’ una necessità di cui ha parlato anche il Presidente della Repubblica, quella della creazione di una vera unità politica dell’Europa; di una confederazione, oso sognare, che rappresenti il naturale punto di arrivo del percorso avviato più di mezzo secolo fa da De Gasperi, Schuman ed Adenauer.

Una Confederazione Europea che è già fatta, nella realtà di un’economia che è gia unica e di milioni di europei che vivono fuori dai propri paesi natii, cui vanno date le istituzioni necessarie per governare il proprio futuro.

Una fase finale del processo d’integrazione, favorito proprio dalla crisi se sapremo resistere alle sirene dei localismi, cui l’Italia, che sta mettendo a posto i propri conti e ha fatto tutti gli sforzi possibili per cavarsi d’impiccio con le proprie forze, potrà partecipare a pienissimo titolo. Da socio, quale che sia il voto che gli attribuiscono le agenzie americane di rating, di serie A.

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.47) 16 gennaio 2012 19:22

    "Siamo noi che combattiamo, per nostra scelta, con le mani legate ..." No caro Daniel non siamo stati noi a scegliere di legarci le mani, ma la destra tedesca. Dietrologia per dietrologia, come togliersi dalla testa che non vi sia anche quì un disegno strategico? chi mi dice a questo punto che la destra tedesca - dopo due disastrosi tentativi di dominare l’Europa con la guerra - non ci riprovi oggi con gli strumenti economici?

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