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 Home page > Attualità > Cultura > (In)ter(per)culturando: check-in breve ’On the road’ - parte II

(In)ter(per)culturando: check-in breve ’On the road’ - parte II

La prima parte con alcune considerazione sugli aspetti interessanti della neo collana 'On the road' nonché annotazioni brevi su altri due libri QUI.
 
L’avvocato G è una storia dove Federica Sgaggio dà libero sfogo a una scrittura uterina e cerebrale, una scrittura all’apparenza frizzante, leggera nell’accezione di facile da capire e veloce da cogliere. In realtà, la velocità è un’arma, una delle caratteristiche di un ritmo che s’impone dall’inizio, che afferra il lettore per una manica o direttamente il bavero e lo trascina in un percorso dapprima stordente ma che poi si delinea, inspessendo corpi e sentimenti, confusioni, e desideri mutevoli. Dalle prime inquadrature i personaggi della Sgaggio non sono ciò che ci si aspetta, non del tutto (la bella-buona, l’eroe corteggiatore, gli ostacoli a dividerli, un ex o comunque un altro-altra a mettersi in mezzo…) perché dalle prime righe il narrare mostra la consapevolezza dei dettagli, la messa a fuoco delle stonature quotidiane. Eppure entrando nel ritmo della storia non è difficile riconoscere tra ragionamenti e sviluppi l’amico, il vicino, il collega, la moglie di, sé stesso. È una storia d’amore, più d’una, dove la realtà ha un posto d’onore tra complessità, confusioni, cambiamenti e scelte le cui conseguenze non sono poi così prevedibili.
Interessante è l’uso dei registri narrativi. Il cuore della storia è narrato in seconda persona ma non mancano variazioni che il lettore non può ignorare e che inizialmente rischiano di confondere ma è un effetto pronto a svanire rapidamente e che premia la comprensione generale d’una storia semplice e difficile allo stesso tempo.
La Sgaggio ha la maturità di non sfiorare il banale o meglio, di rendere un intreccio non originale di per sé (che non è necessariamente un difetto, di intrecci amorosi ormai se ne scrive da secoli) qualcosa di sfilacciato, che quasi si ribella agli stessi personaggi.
Una storia che si legge anche in piedi, sul bus o la metropolitana, ironica ma capace di toccare corde intime e stupire.
 
“Sapevi che era lui quello con cui dovevi farlo.
Non avevi avuto palle da farti tagliare, tu.
Ma anche tu avevi bisogno di metterti alla prova, di vederti dea, di vedere che il tuo corpo piaceva, che non eri solo testa, che la tua pelle cantava, che un uomo poteva perdere il senno solo a guardarti e baciarti e a toccarti e a sentirti.
C’erano gli estremi della predestinazione, Vostro Onore, se la predestinazione fosse un’attenuante generica e noi stessimo qui parlando in un’aula di tribunale per difendere un imputato che sarebbe molto difficile chi è, se tu, lui, la moglie, il mondo, o qualcun altro.
Qualcos’altro, forse.
La paura di morire, o di non vivere con sufficiente intensità.”
 
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“Questa è la storia di come sono diventata grande”.
Inizia così, nel prologo, Occhi di lupo di Nicoletta Vallorani, una storia sfumata in favola originariamente pubblicata nel 2000 da EL. Il lettore capisce in fretta che il linguaggio sciolto ma cadenzato, che ha una sua sonorità intensa, accelera e frena all’occorrenza; il lettore insomma impara a familiarizzare con personaggi che sono corpi ma anche altro, sono simboli di sentimenti, intrecci, legami. Si nominano spesso il dolore, l’infelicità, l’incapacità di impedire al male di essere ciò che è ma anche la necessità di affrontarlo, questo male, come si può, come corpo e mente riescono senza cadere troppo in basso, senza cedere. Poi c’è la morte, anch’essa parte delle cose, aguzzina, crudele, che lascia vuoti incolmabili, che cambia le persone. È un mondo duro, quello narrato dalla Vallorani, un mondo gelido e bianco, ostile alla vita dove le donne sopravvivono più facilmente, dove la loro forza prevale e le costringe a imparare presto, subito, a convivere con silenzio, lentezze e privazioni. La protagonista, anche narratrice, racconta con disincanto della grande fatica del vivere, e lo fa con poche parole, uno stile asciutto, deciso e preciso quanto basta. Ma è anche una storia sulle diversità, sull’affrontare ciò che appare diverso, sul riconoscere negli occhi di lupo ciò che non necessariamente può ferire e fare del male. Vallorani asseconda la struttura del genera ma la fa propria, lasciando all’incanto, alle atmosfere il difficile compito di de-banalizzare tematiche ‘universali’.
Una favola che narra con delicatezza, da regalare ai figli in quel limbo tra fanciullezza e adolescenza, da far leggere in treno mentre fuori diluvia, o in coda da qualche parte quando l’impazienza giovanile scalpita e si vorrebbe cedere alla musica a tutto volume. 
 
– La verità è quello che vedi, – mormorò Occhi di lupo. – Non ci sono fantasmi nel buio -. Occhi di lupo si sfilò la maglietta. – Vedi? Sono sempre io –.
(pag.59)
 
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Davì di Barbara Garlaschelli è un racconto diretto, schietto:
 
“Mi chiamo Davide. Ma mia madre mi chiamava Davì. Ora che se n’è andata non c’è più nessuno a chiamarmi così. Ho diciannove anni, ma a volte è come se me ne sentissi molti di meno. A volte, invece, è come se mi sentissi tutti gli anni del mondo. Credo capiti a tutti prima o poi. Il tempo è una cosa strana. Si dilata, si restringe, si asciuga, si riempie. Si riempie di tutta la nostra vita e anche di quella degli altri. La contiene. Un’enorme borsa della spesa in cui ficcare dentro desideri, sogni, fantasie. Bello.”
 
L’autrice sceglie d’iniziare a narrare attraverso la voce d’un protagonista giovane e curioso, fragile ed esposto. E la sceglie, questa voce, per dare all’intera narrazione quel ritmo sospeso tra l’incanto adolescenziale e le forti emozioni istintive. A tratti Davì pare quasi un bambino, tant’è candido e semplice il suo modo di vedere il mondo quanto ciò che racconta. Poi d’improvviso torna il diciannovenne solo, che dorme in un centro commerciale, e in biblioteca vive tra i mondi dei libri e Beatrice. Il narratore-protagonista non è diligente, non racconta cronologicamente la sua storia, si concede frequenti virate tra piani temporali e libere annotazioni. È un tipico adolescente indisciplinato con una vita faticosa, per strada, e l’immagine d’una famiglia che vorrebbe buttare via assieme all’unica fotografia che li ritrae tutti e tre assieme.
Ma Garlaschelli è regista esperto, sa quando è tempo di spiegare in altro modo, alternando la voce di Davì con un narratore in terza persona. Perché questa non è solo la storia di Davide, ci sono Beatrice, Nicla, la madre di Davide, il bambino incollato al vetro, la fioraia stanca, l’uomo lumaca, la donna senza sogni. Ci sono schegge di vite che l’autrice ha ascoltato poi impastato in una scrittura fresca e paziente, abile ad accompagnare il lettore tra angolazioni e corpi.
Sul finire si resta quasi dispiaciuti, che non ci sia altro, che una certa sospensione testimoni l’abbandono di vite che si iniziava a conoscere (forse capire). È probabilmente una narrazione che potrebbe trovare ulteriori respiri, pause e dilatazioni in una forma ‘romanzo’ per la naturale tendenza a soppesare le maree che si ritirano, a dare spessore ai personaggi attraverso abbandoni, interruzioni, poi ricerche, gesti e azioni a decomprimere emozioni forti.
Un piccolo libro che mette in ‘stand-by’ il tempo, strappa sorrisi e confonde, in un crescendo di arrivi e partenze fino alla dichiarazione finale verso un “scivolare via e lasciarsi trasportare” che i viaggiatori di oggi e domani dovrebbero riconoscere o imparare ad assecondare.
 
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Espiazione 2.0 di Gaja Cenciarelli inizia presentando Giacomo, personaggio originale e complesso, che ha bisogno di un incipit ad effetto per attirare l’attenzione, essere ascoltato:
Chiamatemi Ismaele.
Dicono sia l’incipit più spettacolare della letteratura di tutti i tempi.
In effetti nella storia di Giacomo di eventi straordinari – nel senso di insoliti – ce ne sarebbero. Ma nessuno si prenderebbe la briga di leggerli se la sua storia non avesse un incipit gagliardo. Quindi, per favore, chiamatelo Ismaele.”
L’autrice cerca un contatto diretto (seppur asincrono) con il lettore, quasi coccolandosi questo personaggio poi chiarito ampiamente in seguito nelle sue originali stranezze ( “Si era completamente depilato le gambe e le braccia tanto che quando era arrivato, fermandosi con espressione indifferente sulla soglia – un’indifferenza la sua, che gongolava: su, avanti, guardatemi. Non sono uno spettacolo succulento? – le sei centraliniste del piano terra gli avevano visto chiaramente la pelle d’oca.” – pag.11).
La scrittura insomma, parte spedita, spiccia, sorride e spoglia il corpo di Giacomo e gli sviluppi successivi scanditi da una successione di date a delimitarne il tempo dilatato dal protagonista stesso, occhi e mente che riprendono aggiungendo sottotitoli alle scene. C’è una lucida ironia nella scrittura, nel lasciare spazio al protagonista per poi riprenderselo da narratore che guarda oltre, forse non sempre efficace.
Giacomo, un programmatore alle prese con la crisi improvvisa della Japan Tv, scopre che la stringa di codice del programma riserva sorprese direttamente connesse col suo passato. È un personaggio che ‘a pelle’ si presta a libere interpretazioni, ha alcuni spiccati talenti quanto evidenti capacità maldestre nel relazionarsi e gestire talune situazioni, più in generale la vita.
Una storia narrata tra corpi e dettagli d’un vivere dichiaratamente poco impegnato (“Andava al cinema a vedere Steven Seagal e Sylvester Stallone – ricorda ancora quella volta con Alberto e due ragazze mentre sullo schermo passava Rambo II. Gli piacevano le donne. Gli piacevano le canne. Gli piaceva non fare un cazzo.” – pag.35), giocata su un espediente ampiamente sfruttato dalla letteratura (la possibilità di alterare il passato, di cambiare le cose) ma con inquadrature anomale, storte, che tentano di scombussolare. Verso una nuova forma di redenzione tecnologia.
 
Grazie alla collaborazione di Carlo Cannella
 
 
Autori
Luigi Bernardi, Ivano Bariani, Cynthia Collu, Marino Magliani, Emilia Dagmar, L.R. Carrino, Antonio Paolacci, Gianluca Morozzi, Remo Bassini, Carmen Covito, Sergio Garufi, Valter Binaghi, Nicoletta Vallorani, Antonio Pagliaro, Enrico Gregori, Alessio Arena, Barbara Garlaschelli, Enzo Fileno Carabba, Gaja Cenciarelli, Mauro Baldrati, Federica Sgaggio, Gianni Solla, Roberto Saporito, Giacomo Sartori.
 
In ogni copertina, disegni a china di Mario Bianco.
 
È possibile ordinare singoli titoli (maggiori informazioni sul sito della casa editrice).

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