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Immigrazione | Tendopoli di San Ferdinando in Calabria: le denunce ignorate delle associazioni umanitarie

Tra la fine del 2016 e le prime settimane del 2017, si susseguono le denunce di diverse associazioni umanitarie riguardo le condizioni di vita nella tendopoli di San Ferdinando (provincia di Reggio Calabria). Appelli che restano inascoltati mentre la notte del 23 gennaio l'ennesimo incendio in una baracca ha causato il ricovero di tre persone, una delle quali in gravi condizioni.

Sette anni fa la rivolta dei braccianti di Rosarno che denunciò al mondo le condizioni di vita dei lavoratori stagionali migranti nella piana di Gioia Tauro. Oggi, al posto della fabbrica simbolo della precarietà abitativa di centinaia di persone e abbattuta lo stesso anno della rivolta, sorgono tende e baracche, botteghe, barbieri, moschee e chiese, tutto costruito amatorialmente con gli scarti della civiltà industriale. Un vero e proprio villaggio che sembra abbandonato in una dimensione parallela: è questa la tendopoli di San Ferdinando, un non luogo giuridico dove la civiltà si riduce alla mera sopravvivenza, la “casa” improvvisata di oltre 2.000 persone.

Una delle tante baracche la sera del 23 gennaio ha preso fuoco. Come spesso accade bracieri fai da te sono accesi per riscaldarsi e per preparare la cena. Questa volta il rogo ha causato il ricovero di tre persone, una delle quali ha riportato ustioni molto gravi e lotta con la morte. Un altro incendio, qualche mese fa, ha ridotto in cenere alcune tende e la baracca adibita a chiesa evangelica. In una tenda simile a quella che è andata in fiamme vive insieme alla sua mamma e al resto della famiglia A., un bambino di soli due anni. Non è l’unico minore presente a San Ferdinando.

La tendopoli si configura come una distesa di tende blu e baracche grigie, circondata da cumuli di spazzatura, dove abitano, tra il fango e per la maggior parte privi di corrente elettrica, oltre 2.000 persone, in maggioranza di origine sub sahariana. Tra la fine del 2016 e le prime settimane di Gennaio, si sono susseguite le denunce per le condizioni di vita nella tendopoli. La situazione, infatti, oltre alle condizioni igienico-sanitarie improponibili e al rischio perenne di incendi, è resa ancora più grave dalla particolare rigidità di quest’inverno.

I membri del gruppo Amnesty International di Palmi sono andati domenica 15 Gennaio 2017 alla tendopoli per fornire qualche bene di prima necessità ai migranti che alloggiano nel campo e in questa occasione hanno potuto constatare il pessimo stato in cui versano le baracche e il territorio della tendopoli. “Come gruppo Amnesty e come singole persone riteniamo che le condizioni di vita all’interno della tendopoli di San Ferdinando siano disumane. Cumuli di spazzatura circondano il campo e ne riempiono l’interno, carcasse di animali giacciono in mezzo alla spazzatura, il fango è ovunque e (stando a quello che ci hanno riportato alcuni abitanti) la fornitura di elettricità non è sempre costante. Questi e altri problemi rendono poco o per nulla dignitosa la sopravvivenza all’interno della tendopoli. Chiediamo alle istituzioni competenti che venga preso atto di ciò e che si provveda affinché si crei un’alternativa umana e dignitosa per le persone che per i più svariati motivi sono costrette a vivere in questo luogo di non-umanità”. Gli attivisti raccontano, inoltre, come si sia sviluppato un vero e proprio villaggio, con minimarket e botteghe di ogni sorta, persino un servizio di Taxi offerto da chiunque sia in possesso di una macchina. Carcasse di animali giacciono tra le abitazioni, tra il fango e l’immondizia, mentre alcune caprette attendono ignare il loto turno di macellazione.

Il 26 dicembre 2016, invece, usciva sulla piattaforma Meltingpot la descrizione riportata dai membri del Collettivo Mamadou, Matteo De Checchi, Valentina Benvenuti e Francesca Bonadiman: “Manca l’acqua, la luce, il gas, la fognatura rendendo così il tutto una latrina a cielo aperto. Migliaia di persone convivono tra l’odore della plastica bruciata e la puzza del sangue raffermo della capra, sudicia, appena sgozzata. Grandi lamiere surriscaldate fungono da griglie per la carne. Il fumo tutt’intorno è talmente denso che sembra oleoso. L’aria diventa così irrespirabile.

A San Ferdinando, a qualche centinaio di metri dalla tendopoli, si erge un capannone grigio a due piani, occupato qualche anno fa dai braccianti, oggi simbolo di una condizione abitativa che va oltre ogni umana immaginazione. In 300 vivono all’interno dell’ex fabbrica in materassi e tende di fortuna tra vecchie bombole del gas e cibo avariato”. Il 28 dicembre 2016, anche Medu - Medici per i diritti umani - che da quattro anni opera nel territorio della piana con una clinica mobile giudicava “drammatica” la situazione nella zona: “Duemila lavoratori sono accampati in condizioni disastrose”.

Secondo i dati forniti da Medu, la maggior parte delle persone proviene da Senegal (25%), Mali (18%), Ghana (13%), Burkina Faso (9%). Il 75% ha un regolare permesso di soggiorno (il 29% è richiedente asilo in fase di ricorso contro il diniego della Commissione Territoriale, il 16% è titolare di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, il 10% per motivi di lavoro). “Si tratta per la maggior parte di lavoratori arrivati in Italia da meno di 3 anni che vivono e lavorano in condizioni di estrema precarietà – scrive Medu nel report del 28 Dicembre - la metà dei braccianti dorme su un materasso a terra o direttamente sul pavimento; i bagni sono delle fosse biologiche scavate direttamente nella terra; si cucina in fuochi improvvisati o con fornelli a gas in tende e baracche; ci si lava con acqua riscaldata in bidoni di lamiera; non è organizzato alcun servizio di raccolta della spazzatura. Esistono pertanto rilevanti rischi per la salute e la sicurezza individuali e collettive di coloro che vivono in tali condizioni”.

Precarie sono anche le condizioni di lavoro- continua il comunicato di Medu - In seguito all’inasprimento dei controlli da parte delle forze dell’ordine, si è registrato un aumento dei contratti di lavoro. Il 32% dei pazienti impiegati nella raccolta ha dichiarato infatti di averne uno (+20% rispetto l’anno scorso). Si tratta tuttavia di lavoro grigio: si raccolgono mandarini e arance a cottimo e a giornata per 25-30 euro al giorno, spesso senza ricevere una busta paga né vedersi riconosciuti gli oneri contributivi dovuti”. Dati confermati anche dal report di Meltingpot: “Alcuni ragazzi ci raccontano che a malapena riescono a lavorare 8 giorni al mese, 30 euro al giorno, massimo, rigorosamente in nero”.

A San Ferdinando non vi sono, però, solo lavoratori stagionali. Dalla chiusura del cosiddetto “ghetto” di Rosarno, i migranti che vi dimoravano si sono riversati a loro volta nella tendopoli. Tra questi si registrano almeno una quarantina di donne, in maggioranza nigeriane. La loro situazione è stata più volte segnalata con preoccupazione dalle associazioni umanitarie. “Il quadro si fa ancor più drammatico con l’aumento esponenziale, all’interno dell’insediamento, della popolazione femminile: circa una sessantina di donne, molte delle quali probabilmente vittime di fenomeni di tratta a scopo di prostituzione” scrive Medu. “Il fenomeno più evidente è l’arrivo di tantissimi nigeriani e di una cinquantina di donne che si prostituiscono all’interno della tendopoli e in alcuni quartieri di Rosarno” conferma il Collettivo Mamadou. Anche i membri del gruppo Amnesty di Palmi, consultati a riguardo, confermano la situazione e condividono le medesime preoccupazioni.

Più di un anno fa, il 7 gennaio 2016, il presidente della regione Calabria, Oliverio, dopo aver fatto visita alla tendopoli di San Ferdinando, ha affermato che la situazione era “non degna del vivere civile” e che perciò sarebbe stato necessario agire al più presto per dare dignità a quel luogo e a chi lo abitava. Nello stesso giorno Oliverio afferma di aver concordato con il prefetto di Reggio Calabria (dottor Sammartino) un percorso per fronteggiare l’emergenza ed attivare un intervento umanitario.

Il 19 febbraio 2016 è stato firmato presso la Prefettura di Reggio Calabria il ‘Protocollo operativo in materia di accoglienza e integrazione degli immigrati nella Piana di Gioia Tauro’. Il Protocollo – viste le “condizioni di degrado anche sotto il profilo igienico-sanitario” – impone un intervento non più procrastinabile al fine di garantire la fruizione di servizi essenziali e favorire la piena integrazione.

Il protocollo impegnava la Regione Calabria a ripristinare condizioni minime di vivibilità con lo stanziamento di 300mila euro. Questi soldi dovevano servire per l'acquisto di nuove tende e soprattutto alla “messa in atto di politiche di promozione e sostegno socio-abitativo”. Il protocollo resta finora, però, solo lettera morta. Oltre i periodici annunci di intervento e bonifica, continua la lotta quotidiana per la sopravvivenza di donne e uomini abbandonati ai margini delle nostre democrazie.

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