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Il silenzio (anche) del nuovo: Grillo, Renzi e la campagna che verrà

Non so quale argomento sarà al centro della campagna elettorale a venire, ma, vedendo quel che occupa le prime pagine dei giornali, che sono tornato a leggere dopo un paio di mesi in cui non ho avuto la possibilità materiale di farlo, si può prevedere che non sarà l’economia.

Appaltata la gestione della crisi al Professore e ai suoi ministri, i partiti, e in particolare quelli della destra già di governo, sembrano anzi aver voglia di fuggire quanto più lontano possibile da tale tema che, in questo momento, non può essere toccato senza scontentare perlomeno una parte dell’elettorato. Un atteggiamento che può apparire irrazionale agli osservatori casuali delle cose italiane, ma che ha un precedente recentissimo.

Il paese era già in crisi da perlomeno un ventennio quando si sono tenute le ultime elezioni (non cresceva, mentre il resto d’Europa continuava a farlo, ed era già ben avviata la sua de-industrializzazione), ma, pur avendo mille problemi, continuava a essere tra i meno pericolosi al mondo dal punto di vista della criminalità. Bene; gli argomenti chiave di quella campagna elettorale non furono altro che la sicurezza e l’immigrazione, mentre di sviluppo economico proprio non se ne parlò. Non se ne parlerà neppure nei prossimi mesi, se non nei termini più banali, sia perché la nostra screditata classe politica ha tutto l’interesse a far dimenticare le proprie responsabilità, sia perché qualunque ricetta si voglia presentare per uscire dalla crisi non potrà che imporre dei cambiamenti, più ancora che dei sacrifici, e non è facile trovare una società più restia a cambiare della nostra.

Complice dei politicanti, in quest’opera di distrazione della pubblica opinione, sarà il nostro sistema informativo, che, come certo accade anche in altri paesi, ha con la politica il più incestuoso dei rapporti. Sperando che si chetino le polemiche attorno al Presidente Napolitano e alle intercettazioni che lo riguarderebbero, resta solo da aspettare per vedere se saranno le ennesime querelle sulla “giustizia”, le unioni tra omosessuali oppure la proibizione o liberalizzazione di questa o quella sostanza, a guadagnarsi i titoli a tutta pagina che quattro anni fa sono stati riservati, da tutti i giornali, alle efferatezze compiute dalle orde di stupratori, rigorosamente romeni, poi scomparse a elezioni avvenute.

Per decenni il nostro modello di sviluppo, per chiamarlo così, si è basato sulla complicità tra un settore privato cui era concesso di non pagare le tasse e non rispettare le leggi e un settore pubblico cui era permesso non lavorare o farlo con un’efficienza risibile. Ci si aspetterebbe che i volti nuovi della nostra politica, dopo aver denunciato questo stato di cose, proponessero quelle misure, in fondo semplici (non bisogna inventare nulla; solo copiare quel che si fa nell’Europa che funziona), che sarebbero sufficienti a far tornare l’Italia a crescere secondo le sue, tuttora eccezionali, possibilità.

Non è affatto così, a quanto è dato vedere in questi giorni: dalle soluzioni reali (una riforma radicale del sistema fiscale; l’introduzione di nuove norme per il pubblico impiego e, soprattutto, per i suoi dirigenti) ai problemi reali, il nuovo sembra voler stare alla larga quanto il vecchio.

Non vale neppure la pena di commentare le lamentele di Beppe “Vaffa” Grillo nei confronti di chi seminerebbe odio nei suoi confronti, come non sarebbe elegante ricordare al comico genovese, che non ha mai esitato a insultare i propri avversari, quanto violento sia stato il linguaggio che ha sempre utilizzato. Credo sia lecito dire che ci si aspetterebbe dal suo movimento post-ideologico un pragmatismo di cui per ora, tra un sogno sudamericano e la fideistica attesa nei miracoli della rete, non si vede traccia. Soprattutto lascia perplessi questo suo continuo porre in primo piano la propria figura, dando prova di un narcisismo del tutto simile a quello di cui è stato vittima un nostro ex Presidente del Consiglio; un atteggiamento che non sono in grado di dire se sia patologico, ma che per certo porta a trattare i cittadini da pubblico, chiamato ad applaudire o fischiare l’attore sulla scena, più che da elettori cui si chieda la meditata approvazione di un progetto politico.

Un nuovo che sa tanto di muffa, insomma. Lo stesso che si può dire guardando a Matteo Renzi, dentro il PD. Giustissime le cose che dice, il mio putto preferito, quando parla della necessità di ridurre i costi della politica, ma pure facilissime a dirsi, sicuri dell’approvazione del 90% (o giù di lì) degli italiani. E’ quando si tratta di parlare d’economia, di come dovrebbe cambiare la vita degli italiani, se si vuole che il paese si salvi, che il buon Matteo preferisce tacere. Anche dal palco della festa del PD (a quanto riportano i giornali) non lo si è sentito parlare d’altro che di alleanze dentro e fuori il proprio partito; tema sicuramente interessante per gli elettori di sinistra, ma che affrontato in quei termini, con parole e toni degni di un politicante d’antica scuola, lascia l’impressione di trovarsi di fronte ad un notabile democristiano e non dei più brillanti.

Un protagonista in più, alla fine, in un teatro della politica che sembra destinato a restare uguale a se stesso fino a che sul suo palcoscenico i riflettori continueranno a esservi puntati alla maniera di sempre.

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