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Il protezionismo è una via verso la guerra

Non c’è alcuna differenza tra scambiare liberamente beni, servizi e lavoro tra Milano e Napoli e tra Milano e Vienna, New York o Shangai. E non c’è alcuna differenza tra il libero scambio a Milano fra milanesi e il libero scambio nel Mondo fra persone di tutti i continenti. Se le persone si arricchiscono e traggono giovamento dal libero scambio in generale, allora non c’è alcun motivo razionale per credere che vi sia qualcosa di negativo quando esso si estendo oltre i confini cittadini, regionali, nazionali o continentali. Il caso contro il libero commercio internazionale, cioè il protezionismo, è un caso contro il libero scambio tout court.

Per sostenere un caso contro il libero scambio tout court bisognerebbe dimostrare che in generale le persone scambiando fra loro si impoveriscono. Vale a dire che se un individuo non scambiasse niente con nessuno starebbe meglio. Il che è ovviamente folle. Se un individuo non scambiasse niente con nessuno sarebbe un miserabile o morirebbe, dovendo svolgere personalmente ogni lavoro e procurarsi ogni bene, si può dubitare che riuscirebbe anche solo a sostenersi.

Il protezionismo acquista un apparente senso solo se si ragiona per blocchi, ad esempio contrapponendo l’Italia agli Stati Uniti, gli Stati Uniti alla Cina, la Francia alla Germania. Ma questa è una rappresentazione falsa, perché l’Italia, gli Stati Uniti e la Cina, non sono persone e non scambiano alcunché. Sono gli italiani, gli americani, i francesi, i tedeschi e i cinesi che scambiano.

Imporre limiti ai loro scambi con barriere artificiali sui confini nazionali, non li arricchisce in alcun modo. Ne limita solo le possibilità, impoverendoli. È vero il contrario: allargare il gruppo di persone fra cui si scambia, significa aumentare e diffondere il benessere.

Il commercio non è un gioco a somma zero, commerciando le persone non si limitano a redistribuire fra loro una quantità finita di ricchezza, beni e lavoro. Attraverso il libero scambio e la divisione del lavoro, la ricchezza, il benessere e il lavoro aumentano. Sopprimendolo, non si conservano, ma diminuiscono. Anche se è possibile che in un paese che abbia adottato misure protezioniste si verifichi una crescita della ricchezza e del benessere, tale crescita sarà minore di quella che sarebbe stata altrimenti. Lo implica la logica spiegata sopra: è sufficiente riconoscere che lo scambio, anche solo fra due persone, è positivo e vantaggioso, e ne discende che deve esserlo anche fra due miliardi.

Inoltre il libero commercio altro non è che la descrizione del commercio in una società basata su rapporti volontari e contrattuali. Uno scambio ha luogo con il consenso delle parti coinvolte. Il protezionismo dunque implica l’inserimento di un elemento coercitivo, che limita i rapporti volontari e contrattuali. Implica una terza parte che impedisce con la forza a due persone (o associazioni di persone) di scambiare fra loro.

Se infatti queste persone non volessero scambiare non scambierebbero. Il protezionismo non si limita a riconoscere il diritto di una persona a non scambiare con un’altra se non desidera farlo. Protezionismo è impedire con la forza a due persone che desidererebbero scambiare di farlo. E dunque è un atto di prepotenza e di aggressione. Il protezionismo comporta quindi non solo un impoverimento economico, ma uno scadimento della società e del benessere dei suoi membri, i quali vengono fatti oggetto di aggressioni e prepotenze. Una perdita non solo di ricchezza, ma di benessere sociale, di qualità della vita e di libertà.

Il protezionismo impedisce la libera associazione delle persone sulla base degli interessi, dei desideri, dei valori, dei progetti che le persone si danno, e le obbliga a seguire gli interessi e i progetti di qualcun altro, con la forza. In sua assenza le persone si comporterebbero in modo diverso le une dalle altre. Alla rete di scambi che si verificherebbe in sua assenza, molto più diversificata, il protezionismo ne sostituisce una imposta dall’alto, che obbliga tutti a conformarsi ad alcuni diktat. Sostituisce perciò l’omologazione alla diversità. Spingendo le persone a comportarsi nello stesso modo, le rende più vulnerabili. Se ad esempio si spingono le persone a fare tutte gli stessi investimenti, nel caso in cui questi vadano in crisi, i danni saranno generali. Mentre in presenza di strategie di investimento diversificate, i danni sarebbero stati più contenuti. Allo stesso modo la moltiplicazione degli scambi e dei rapporti commerciali, fa sì che le difficoltà o la crisi di uno pesino meno sugli altri.

È vero che il libero commercio tende a riallocare il lavoro e le imprese, ad esempio è vero che se un paese apre al commercio con un paese che produce i suoi stessi prodotti a prezzi minori, i produttori del primo paese soffriranno la concorrenza dei secondi. Questo semplicemente perché molte persone, lasciate libere di agire, preferiranno acquistare i prodotti che costano meno. Ma che senso ha usare la forza per impedirlo? Che senso ha procacciare clienti ai produttori nazionali con la forza? Non dovremmo essere liberi di entrare nel negozio che vogliamo? Non dovremmo poter scegliere partner e fornitori? Non dovremmo in generale poterci sempre associare e non associare liberamente? Dovremmo proteggere l’inefficiente dall’efficiente solo per un sentimento nazionalista? Chi la pensa così può tranquillamente scegliere di pagare di più e acquistare il prodotto in cui vede un valore aggiunto. Ma le conseguenze di una politica che imponga obblighi in tal senso non sarebbero certo positive: promuoverebbe l’inefficienza e il nazionalismo, cioè un sentimento di superiorità e rivalità verso le altre nazioni. Ricordiamo inoltre che non dobbiamo sempre identificarci con il paese perdente, a volte – in tutti quei settori in cui siamo più forti e capaci – ci troveremo nei panni del secondo paese dell’esempio, quello che con il libero commercio vede fiorire un proprio settore. Dal momento che il lavoro è potenzialmente infinito come sono infiniti i bisogni, i desideri e le possibilità umane, la perdita di posti di lavoro in un settore, non comporta una perdita assoluta di posti di lavoro: le persone che non fanno più una cosa ne faranno un’altra. E nella misura in cui un simile sistema ci spinge a fare ciò che sappiamo fare meglio e a lasciar perdere ciò in cui siamo più scarsi, comporta un aumento dell’efficienza, della produttività e della ricchezza, e fornisce anche maggiori risorse disponibili per aiutare tutti coloro che perdono il lavoro, e sono in difficoltà, o non hanno la possibilità, di trovarne un altro.

Insomma i politici di destra e di sinistra che come Trump o Bernie Sanders negli Stati Uniti, o Salvini (due esempi) e i grillini in Italia, propongono il protezionismo – e meno male non arrivano all’autarchia di fascista memoria - che si tratti di beni, servizi o lavoro sono dei truffatori. Non portano benessere, ma inutili divisioni e attriti, faide commerciali, aumenti di tasse, e via dicendo. Se il mondo perfetto, senza povertà, senza disoccupazione, senza guerre, senza antagonismi, non esiste, sicuramente il mondo senza protezionismo è per lo meno un posto migliore.

Portando le cose all’estremo (ma neppure troppo), ricordo che Hitler, fautore di un’economia autarchica, promosse la guerra, sostenendo che i tedeschi avevano bisogno un loro “spazio vitale”. Quando si rinuncia al commercio e al potere di ottenere le risorse che non sia hanno tramite uno scambio pacifico, non restano che due strade: rinunciare quelle risorse e accettare l’impoverimento che ne deriva – ma nessun politico è mai stato eletto proponendo ai suoi cittadino di impoverirsi – o cercare di conquistare quelle risorse con la violenza. Storicamente il protezionismo è collegato al nazionalismo, spinge ad atteggiamenti bellicosi, e la sua crescita ha spesso preceduto i veri e propri scontri militari: in una parola il protezionismo è un cammino verso la guerra. Stiamo attenti a imboccare questa strada!

P.S. Accordi come il TTIP o il TPP, fuor di propaganda, non sono “libero commercio”, ma pura “gestione politica clientelare del commercio”. Per avere un libero commercio è sufficiente abolire tariffe, dazi, dogane, et similia, non servono trattati segreti di migliaia di pagine, scritti tramite una lunga concertazione tra politici e lobbisti vari.

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