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Il paradosso di Obama e Sutri

La lezione di Sutri…. e di Washington. 

Un patto fra Davide e Golia: una nuova civiltà dell’informazione al tempo della rete.

Cosa hanno in comune la terribile storia del piccolo Rocco, il nipote del nostro amico e compagno di lavoro professor Pellegrini, morto nei giorni scorso all’età di 14 mesi, e diventato oggetto di un inspiegabile e gratuito linciaggio della sua famiglia da parte di media ed inquirenti, con l’imminente svolta alla Casa Bianca con la vittoria - di cui siamo certissimi e non da oggi - di Barack Obama? 

Propongo una comparazione che, apparentemente, potrebbe avere senso solo per chi, nel nostro microcosmo di amici del professor Pellegrini e di osservatori di media, in questi giorni è stato travolto e conteso dai due vortici asimmetrici. Ma che invece, a ben vedere, dovrebbe toccare, da molto vicino l’intera schiera di cittadini attivi in questo paese, a cominciare dai giovani che stanno portando in piazza una nuova fresca ventata di vitalità civile.

I fatti sono stati raccontati in questi giorni dai nostri blog. In breve: il piccolo Rocco muore presumibilmente per l’ingestione di qualche farmaco per lui letale. A poche ore dal decesso, vengono arrestati i due genitori, con l’imputazione di uso e coltivazione di stupefacenti, e l’ombra incombente di un’agghiacciante accusa di aver causato, forse persino con dolo, la morte del loro piccolo, che avrebbe ingerito droghe o metadone in uso ai due genitori. Lo shock paralizza congiunti ed amici, a cominciare dal professor Pellegrini e la moglie. Tutto viene rimandato ad un’imminente autopsia, che dovrebbe fare luce sulla dinamica del decesso.

Invece, il giorno dopo la tragedia, in seguito ad una conferenza stampa degli inquirenti, parte una campagna mediatica che da per sicuro che i due genitori facessero uso corrente di droghe, che vivessero in uno stato di degrado e che il piccolo è rimasto vittima di questo ambiente malato.

Con dettagli e circostanze descritte con tale minuzia, che davano l’idea di una diretta ed esplicita verifica da parte dei cronisti di un’inoppugnabile realtà. Nulla di quanto descritto risulta vero: dei due genitori, uno solo con precedenti di droga, ed in cura al Sert di Ronciglione; quanto trovato nell’abitazione non prova assolutamente il perdurare di queste pratiche, tanto è vero che i due vengono scarcerati dopo 48 ore. La casa in cui abitano, al piano inferiore di una villetta dove risiedono anche il professor Pellegrini e la moglie, non presenta alcuna caratteristica di degrado, tutt’altro.

In ogni caso non ci sono concreti e incontrovertibili motivi per adombrare, cosa che invece è affiorata sui media, la terribile responsabilità, persino attiva, dei genitori nella dinamica che ha portato alla morte del piccolo. Lo stesso piccolo Rocco, per altro, soffriva di un congenito soffio al cuore che, al momento, è materia di analisi da parte degli esperti sanitari incaricati di stabilire le cause del decesso. Insomma il caso del bimbo morto nel viterbese, come titolavano i quotidiani il giorno dopo la tragedia, si presta all’ennesimo caso di “malainformazione”.

Ma a questo punto interviene la novità. Il professor Pellegrini, insegnate di comunicazione multimediale, non si rassegna a subire il linciaggio, e insieme alla moglie, giornalista, si ribella, appellandosi allo strumento che meglio conosce e che gli garantisce l’accesso: la rete. 

Pellegrini scrive a mediasenzamediastori.org ed ad agoravox.it; descrive il suo dolore per l’irreparabile perdita del nipotino, e urla la sua rabbia per l’indecente campagna mediatica che ne è seguita. 

L’effetto è immediato: decine e decine di commenti e di attestati di solidarietà si stringono attorno al professore. Ma soprattutto, e questo è il vero fatto che muta il quadro informativo, la rete diventa fonte di notizie alternative e opinione circostanziate sui comportamenti professionali dei singoli cronisti, incombendo sui professionisti dell’informazione. 

L’incantesimo si rompe: il re si mostra nudo.

Ognuno si trova a dover giustificare i propri atti. 


Nessuna rendita di posizione è impermeabile, nessun oblio copre le imprudenze e le irrispettose precipitazioni. La rete funge da lente di in gradimento sulla memoria: chi ha scritto che cosa e perché, si chiede. E diventa occasione di ricomposizione di nuove, sicuramente non definitive ed assolute, ma distinte e comparabili alle precedenti, verità che costringono tutti gli attori in campo a confrontarsi con l’imprevedibile: Davide parla e contesta Golia. 

Bisogna rispondere, non basta una scrollata di spalle, non basta seppellire l’articolo sul piccolo Rocco con altri articoli di eventi successivi che cancellano il precedente, come solitamente avviene. I professionisti dell’informazione, e chi scrive è uno della casta, si vedono circondati da una comunità in rete, che ti scruta, ti legge, ti giudica, ti confronta. Il clima muta subito: si accavallano le telefonate di giornali ed emittenti televisive che sollecitano il professore e la moglie a rilasciare interviste chiarificatorie, rettifiche, contestazioni alle tesi ufficiali. 

Sicuramente essere incappati in due addetti alla materia comunicazione, la nonna è addirittura una della corporazione, ha molto influito nella frenata alla caccia all’untore. Ma certo scorgere nella lista che appare su Google alla query ” bimbo morto a Sutri”, il proprio pezzo accanto alle puntuali contestazioni del nonno, e alle decine di messaggi di solidarietà, certamente non ha rassicurato i “giornalisti”.

Ora, e qui vengo finalmente alla mia domanda iniziale: credo che questo uso della rete sia il punto che congiunga oggi Sutri a Washington, il professor Pellegrini ad Obama, fatte salve le dovute ed evidenti differenze.

Dico meglio: non l’affermarsi della rete in quanto tale, ma di una nuova cultura della connessione reciproca.

Infatti anche Obama ha sbaragliato prima Hillary Clinton e l’apparato del partito democratico, che inizialmente, ossia due anni fa, non puntava certo su di lui, che poi McCain e l’america conservatrice, che lo snobbava e ne rimane diffidente, mettendo in campo il popolo della rete. Ossia, decidendo che esiste ormai un’altra America, che non è classificabile automaticamente come liberal e di sinistra, ma che è certamente cosa diversa all’america texana.

Un’america di individui, che quotidianamente costruiscono la propria identità e il proprio futuro lavorando in rete, in competizione fra loro, e in combinazione fra di loro.


Una formula questa della competizione collaborative che non è una riproposizione della nebulosità delle convergenze parallele.

Si tratta di un concetto che da anni matura in rete, che ancora non è stato decifrato, da chi invece tende, alternativamente, a privilegiare o solo la prima funzione - la competizione che ci porta a considerare Internet niente di più come un semplice nuovo strumento del mercato liberista - o solo la seconda - la collaborazione che porta alcuni a vedere la rete come una sorta di socialismo in un solo server.

Siamo invece di fronte ad un fenomeno del tutto inedito, complesso, potente, e pervasivo. Un fenomeno profondamente immerso nel mercato, ma con una cultura diversa dalla semplice, predatoria, logica proprietaria, che premia chi acquisisce, una volta per tutta, la roba.

Obama lo ha capito, e vi ha scommesso sopra.

Ha scommesso sul fatto che questo popolo non si mobilità dall’esterno ma agisce naturalmente: essere in rete significa intervenire, valutare, decidere, esprimersi, rivendicare, reagire.

Ad una sola condizione che bisogna usare il suo linguaggio e assumere i suoi contenuti: competizione, saperi, infrastrutture, connettività, sostenibilità, vivibilità.
E soprattutto partecipazione.

Parlare con questo popolo significa accettare il confronto e il rischio di una cogestione delle proprie idee, significa mettersi in gioco, significa svegliare un mostro, il mostro appunto della partecipazione, che non accetterà più di essere congedato.

Obama ha raccolto 600 milioni di dollari, a colpi di 20/30 dollari per volta, armando un esercito di rompiballe, di bloggisti, twitteriani, facebookisti, youtubisti, che non si ritirerà una volta conquistata la Casa Bianca.

Obama si è proposto come leader di quest’america, alla quale ha proposto un patto per ritrovare la testa del convoglio dello sviluppo nel mondo.

E questa nuova america gli ha indicato, in lunghi mesi di dialoghi in rete, le priorità: intanto l’ambiente - non c’è sviluppo senza riequilibrio delle condizioni di vita- poi inclusione e sicurezza sociale - una società compatta che sta in rete senza gerarchie è la migliore garanzia per chi sulla rete trova il suo business - infine formazione e sapere - è l’unico modo per competere e vincere.

Sono queste le priorità con cui Obama ha conquistato l’america: in cambio, questo è il segreto del voto trasversale che raccoglierà il senatore di Chicago, un voto che vede accostarsi liberal e neo cons, giovani e i broker di Wall Street, promette un nuovo secolo americano, un nuovo primato per competere con cinesi ed indiani. 

Ma per fare questo Obama ha superato la prova del primo miglio. Di solito si dice che si vince nell’ultimo miglio, la prova finale del voto. Questo non vale da noi in Italia, dove tutti i candidati innovativi vengono neutralizzati dall’apparato politico nel primo miglio, nella fase iniziale, quando si forma la nuova personalità. 

Anche con Obama ci hanno provato: l’attacco iniziale dell’apparato del suo partito che puntava su ben altre candidate all’inizio è stato durissimo.

Ma Obama ha vinto proprio appellandosi alla rete, chiamando in gioco 28 milioni di nuovi americani che fino ad allora non erano conteggiati. Obamasupera la prova di forza iniziale proprio mettendo in campo una potenza che ha sbaragliato la potenza tradizionale. Obama ha vinto perché in america la rete è adulta, è ormai un soggetto sociale, oltre che scientifico ed economico, è un modo di vivere. Da noi ancora no, ma il caso di rocco a Sutri, ci mostra che quella è la tendenza anche per noi. La rete sta crescendo. Non in termini di connettività, di bit rade, di broadband, quanto di cultura sociale, di senso comune, di pratica individuali. La rete ha superatoi il punto di non ritorno. I nuovi movimenti che oggi fermentano( studenti, consumatori,sportivi, lettori, scrittori, utenti) stanno dando corpo ad un nuovo modo di combinarsi socialmente. Come ci spiega la legge di Reed, (concedetemi una citazione professorale che ho evitato fino ad oggi, ma, come si dice a Roma, quanno ce vò ce vò,) "la pratica sociale di un sistema innovativo precede e amplifica l´innovazione". Siamo in quella fase, che i sociologi definiscono aurorale del fenomeno.

L´ultimo miglio è ancora lontano. La possibilità di vedere nei prossimi mesi anche da noi un Obama non è alla portata. Ma il primo miglio mi pare alle viste. Oggi è possibile neutralizzare incrostazioni, domini, monopoli, caste, e blocchi, mettendo in movimento la rete. L´informazione da tempo se ne sta accorgendo. La categoria dei giornalisti è sotto tiro. Sindacalmente, perché perde il controllo sul prodotto, socialmente, perché perde ruolo e missione,professionalmente, perché perde valore e primato. Sarebbe ora di una vera riflessione. Non si tratta di piegarsi deterministicamente ad una logica bolsamente nuovista, che ignori il ruolo della mediazione. Ma di rileggere la mediazione nei nuovo processi di disintermediazione. Si tratta intanto di capire che non siamo più soli, che non possiamo più gestire una funzione esclusiva. E per questo, intanto ,andrebbero eliminate sciatterie, indolenze, pigrizie e luoghi comuni: più rigore e attenzione. Ormai ,è bene saperlo, siamo in competizione con i nostri lettori e ascoltatori.
L´ordine dei giornalisti, per quanto ancora rimarrà, invece di pensare a difendere la sacralità della professione, o trastullarsi con cervellotiche formule di giuramenti sul cacciatore di notizie, dovrebbe ridurre i margini di impunità, ed alzare le pretese di completezza delle informazioni in un nuovo ambiente di total attentione da parte del lettore.

Secondariamente il sindacato dovrebbe lanciare una vera inchiesta dentro se stesso, per comprendere realmente le condizioni e i modelli di produzione, e definire una fase costituente di rilettura dei canoni professionali. Dobbiamo essere noi giornalisti a proporre un processo di riorganizzazione. Meno centralità nella fase della raccolta di notizie - ormai siamo in un condominio che va riconosciuto, organizzato, normato - ma più spazio nella fase di progettazione e gestione dei sistemi intelligenti. Deve essere il giornalista che elabora il sistema di selezione e scannerizzazione delle fonti, intendendo per fonti ormai quell´infinita molteplicità di offerta che va dalle forniture convenzionali (agenzie e altri media) all´insieme di forme collabborative della rete. Dobbiamo rivendicare noi la funzione di tutori e gestori della catena del valore della notizia. Così come dobbiamo elaborare una nuova etica e deontologia professionale.

Siamo nel tempo del real time, slow news no news, diceva CNN nel 1980 quando partì, oggi è ancora più vero. La velocità della notizie e del suo commento è una pretesa sociale: oggi vale la regola del slow analysis no analysis. Questo significa un nuovo modello produttivo: il giornalista come brokers di competenze esterne alla redazione. Non significherebbe questo ritrovare una centralità strategica nelle aziende editoriali, anche a fini sindacali? Infine il concetto di attendibilità: non vale più la regola che la notizia si pesa in una data ora della giornata, per la messa in pagina o la messa in onda. La notizia ormai è come le quotazioni di borsa, esposta permanentemente ad un processo di integrazione e modificazione: la rete rumina, dice De Kerkhove, scusatemi ma è l´ultima citazione. Dunque il giornalista deve essere il garante di questo continuo gioco di confronti e di intrecci di versioni, opinioni, rettifiche e conferme. Nessuno accetterà più di rimanere al proprio posto di suddito dell´informazione altrui.

Queste sono le lezioni che ci vengono da Sutri e da Washington. Spero di aver dato un contributo riassumendole e avviando, ovviamente, il processo di integrazione e correzione da parte della rete. Con una proposta finale: proviamo a discuterne veramente, con un obbiettivo, un confronto pubblico fra giornalisti, blogger e rappresentanti della categoria sul tema: Davide deve davvero uccidere Golia per farsi rispettare?

Commenti all'articolo

  • Di Rocco Pellegrini (---.---.---.122) 4 novembre 2008 16:11
    Rocco Pellegrini

     la metafora di Davide e Golia la trovo molto bella e, secondo me, rende pienamente l’idea di quel che dobbiamo fare e che già stiamo facendo con una sola eccezione.
    Davide non deve uccidere Golia perchè così facendo gli diventa simile.
    Al tempo della saga l’uomo non era in grado di capire che la morte non è la soluzione e dunque era giusto uccidere ma oggi, quando la non violenza si è fatta largo ed è diventata una divisa delle persone perbene, bisogna lavorare per influenzare, per aggiustare il tiro, per migliorare con una mente pulita ed orientata al problem solving proprio come quella di Obama.
    Infine condivido pienamente la descrizione che fai di Obama come l’uomo della rete laddove la rete è così matura da farsi leadership. E’ un concetto che non si sente in nessun media tradizionale, non appare nei talk show che imperversano dappertutto sulle elezioni americane, ma è così evidente per chi sa quello che Obama ha fatto nel campo del social network e nell’uso evoluto di questa grande risorsa epocale.
    Tant’è l’ignoranza la fa da padrona ma non per questo le cose non stanno come la tua bella analisi dimostra.

  • Di Damiano Mazzotti (---.---.---.219) 4 novembre 2008 16:20
    Damiano Mazzotti

    Davide non deve uccidere Golia, ma incatenarlo ben bene....

    • Di (---.---.---.118) 4 novembre 2008 17:20

      Trovo molte verità nell’articolo di Michele Mezza. Sicuramente la rete ha in parte restituito a Rocco, Grazia, Giulio, Beatrice e il piccolo Rocco, una verità strapazzata selvaggiamente dai media. La rete può fare molto di più, il suo uso nel nostro paese è ancora debole. Negli States è uno strumento in uso da tempo e ben ha fatto Obama a collegarsi con quell’America che vuole dialogare e non restare solo supina ad ascoltare.Sono d’accordo nell’avviare un percorso tra i tanti che vogliono usarla, a partire dai giornalisti, che certamente imparerebbero meglio a fare il loro mestiere. Iva Testa

  • Di Paolo Praolini (---.---.---.119) 4 novembre 2008 21:52

    Concordo con Michele Mezza che questo tipo di informazione avrà un futuro con una straordinaria amplificazione, sia nell’uso della rete, che nella portata della diffusione dell’informazione.
    I media partecipativi come Agoravox hanno inoltre il vantaggio, come nel caso del Prof.Rocco, di avere un redattore in ogni angolo del paese, e ciò può dare vantaggio nei confronti dei TG e della carta stampata, scardinando la notizia o cambiandone addirittura la connotazione.
    Mi aspetto pertanto che la crescita di siti come questo e di tutto il modo del ’social networking’ possa dare un slancio allo sviluppo di un nuovo pensiero a partire dalle nuove generazioni portando un cambiamento profondo del paese.
    Ci vorranno ancora degli anni, ma questa è la strada giusta.....
    Barack Obama insegna come ci ha rivelato Michele Mezza.

  • Di in hoc signo (---.---.---.231) 5 novembre 2008 14:19

    ....Credo che Milingo possa essere la risposta caserecciosexy italo -vaticana da presentare alle prossimi elezioni. L’unico suo punto debole potremo dire che è la castità, specie negli ultimi anni, dopo il matrimonio, in Trance? con l’avvenente sig.ra Coreana, discepola della setta di Moon non è stato un esempio di nitore psichico-sessuale. Ma in confronto a Mele, a Sircana ed altro è un GIGANTE di eticità.
    Lui ha fatto tutto alla luce del sole anche lì dove la luce non batte.
     

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