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Il Ripasso 7: Led Zeppelin

D’accordo, li conoscono tutti. Nulla di nuovo da scoprire. Ma questo non toglie il piacere di sentirsi una playlist di loro brani storici, con una scelta tutta orientata a uno dei loro elementi caratterizzanti più forti: la forte anima blues, forse il loro lato migliore.

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Il progetto denominato Led Zeppelin, e chiamato così perché secondo alcuni rischiava di essere un’idea destinata a “sgonfiarsi come un pallone”, non nasce spontaneamente. E’ frutto di quel ricco ambito di rivisitazione blues che prende anima in Inghilterra nei primi anni ’60 e che li percorre per intero. Fra i vari esponenti di questo ambito, dove possono esprimersi soprattutto i musicisti più virtuosi, ci sono gli Yardbirds, un gruppo che vede due fra i migliori chitarristi dell’epoca, Jeff Beck e Jimmy Page.

Con l’uscita di Jeff Beck e la progressiva disgregazione della band (1967), viene concesso a Jimmy Page e al bassista Chris Dreja di mantenere il vecchio nome del gruppo per concludere una tournée già organizzata. Page, dopo varie audizioni e proposte, viene in contatto col cantante e armonicista Robert Plant che consiglia a suo volta il nome del batterista John Bonham, con il quale aveva suonato nel gruppo The Band of Joy“.

Chris Dreja abbandona la band per dedicarsi alla fotografia (sua l’immagine dei Led Zeppelin nel retro di copertina del primo disco). Viene allora contattato da Page John Paul Jones, che aveva già collaborato con gli Yardbirds, già in fase di scioglimento, per arrangiare alcuni brani e suonare le tastiere. Ora è il bassista di questo nuovo organico. Assunta la nuova identità di Led Zeppelin, in 30 giorni registrano il primo disco, ottengono un contratto discografico dalla etichetta Atlantic, dove hanno piena libertà di decisione artistica e produttiva, e partono subito per una tournée negli States.

Babe, I’m Gonna Leave You” è un brano estremamente significativo per dare l’idea della svolta che rappresentano i Led Zeppelin nel panorama musicale. Dalla commistione, dal meticciato musicale nasce la novità. E’ una canzone che può essere scomposta in tante parti. Dall’arpeggio folk della chitarra acustica, al testo e al cantato blues, anche se nello stile graffiante di Plant, che qualcuno ha giustamente paragonato a quello disperato di Janis Joplin. Il brano è arricchito da brevi coloriture di chitarra flamenca, mentre l’elettrica compare nel riff violentissimo. Questo è il cuore della canzone. La batteria pesta violenta un ritmo marziale in quattro quarti mentre un muro sonoro di strumenti elettrici trasporta il lamento disperato di Plant. E’ l’invenzione dell’Hard Rock.

I professionali Led Zeppelin, veri stakanovisti del rock, ottimizzano il tempo fra concerti e registrazioni per strada di nuovi brani. Sempre sull’impronta del primo album esce il secondo, di nuovo influenze di provenienza varia (si aggiunge la tradizione country & folk frutto dell’incontro con gli Stati Uniti). In “Ramble On” la tradizione degli hoboes, i cantastorie dell’epopea della “depressione economica”, si sposa con le ritmiche funky. Siamo nel 1969.

Con il terzo album si esce dagli anni 60 e si entra nei 70, e la svolta si sente. Il cambiamento è dovuto soprattutto alla consapevolezza di aver inventato un genere nuovo, l’hard rock, e per questo la band spinge particolarmente sulla durezza ritmica ed elettrica di alcuni brani, tanto che qualcuno vede in questi i primi esempi di heavy metal (“Immigrant Song“), anche per le tematiche che dagli argomenti sessuali del blues passano all’interesse per la mitologia e la storia del Nord Europa.

Nel terzo album del 1970, nato in parte in un cottage nel Galles, e perciò più folk dei precedenti, spicca a mio parere però il loro “canto del cigno” blues. Forse la loro ballata più “dolente” di sempre,Since I’ve Been Loving You”, con la quale chiudono (provvisoriamente) con il genere con cui sono nati e che comunque farà parte per sempre del loro DNA musicale. Diciamo che è il loro addio, e tributo, al blues per come era inteso e interpretato da una band negli anni 60.

Nato sempre nel cottage Gallese di Bron-Yr-Aur, il quarto album (1971), con una post-produzione che li allontana definitivamente dagli anni 60 e li catapulta nei 70, è imbevuto più che mai di ballate ispirate al folk celtico, a quello che proliferava in Gran Bretagna grazie a gruppi come i Fairport Convention o gli Steeleye Span, band che riproponevano le canzoni della tradizione.

A questo nuovo approfondimento musicale, sincero ma che conferma anche tutta l’astuzia di una band che sa cogliere le “novità” del momento, corrisponde un successo clamoroso. La ballata acustica che si trasforma progressivamente in brano rock riempe il cuore dei (e soprattutto delle) fans, da sempre combattuti fra dolci sentimenti e ribellione passionale. La formula vincente dell’emozione nel rock.

Ci sarebbero poi le intemperanze durante le tournée, buffonate forse costruite a tavolino dove a farne le spese sono sempre le stanze degli hotel, immancabilmente devastate durante riti orgiastici o atti vandalici di vario tipo. La band in realtà è un progetto studiato sotto ogni punto di vista, soprattutto per quanto riguarda l’immagine: quella violenta e diabolica che, stemperandosi con il tempo, oggi onestamente fa un po’ sorridere.

Il quarto album è un successo di vendite clamoroso. Questo permette di dedicare maggiore cura nella produzione del disco successivo, “Houses of the Holy” che esce nel 1973. Il disco contiene delle perle, come la ballata “The Rain Song”, l’elaborazione finale, quasi barocca, del genere in cui sono diventati esperti, cioè la ballata. Ma anche cadute di stile come le numerose citazioni musicali, dal funky alla James Brown, al tentativo, miseramente fallito, di avvicinarsi al reggae. Sono in realtà parodie, almeno così si spera, ma si è persa quella predisposizione dei dischi precedenti alla commistione creativa piuttosto che alla imitazione pedissequa. Rimane comunque un disco piacevolissimo da ascoltare, soprattutto per la cura del suono, mai così attenta.

Dalla tournée statunitense, in particolare da un concerto a New York, uscirà poi il film, metà fiction-metà documentario del live “The Song Remain the Same”, una delle più grandi tamarrate del filone “documentario musicale”. Cattivo gusto che farà presa ovviamente nell’immaginario dell’Heavy Metal. Ma film e album dal vivo, usciranno solo nel 1976. Siamo ancora nel 1975 ed esce quello che a mio modesto parere è il loro capolavoro: il doppio “Physical Graffiti”. La band torna ad essere più spontanea e sincera che mai. Con questo album raggiungono uno status degno di divi come i Rolling Stones. Le canzoni possono essere brevi ed efficaci spunti rock o lunghe meditazioni. Intensi, lirici, oppure melanconici, dolenti. Tre aspetti esemplari nei tre brani forse migliori: il blues delle origini di “In my Time of Dying”, la commovente “Ten Years Gone”, una canzone nella sua forma più pura, e l’irresistibile bluegrass per mandolino e batteria “Black Country Woman”.

Robert Plant subisce due traumi: un grave incidente stradale nell’isola di Rodi, dove rischia la vita insieme alla moglie, e la morte di un figlio per un virus intestinale. Questi due eventi tragici causano l’interruzione per due volte consecutive delle consuete mega-tournée della band.

Anche artisticamente la band prende una deriva, segno dei tempi che corrono e ai quali non riescono più ad adeguarsi in modo brillante. Eppure quando esce, nel 1976, il mediocre “Presence” raggiunge la prima posizione nelle classifiche di vendita negli States e in Inghilterra. Sicuramente conta parecchio l’affetto dei numerosissimi fan e il fatto che il loro hard rock resista meglio di altri generi all’ondata incipiente del punk.

Ancora più disastroso “In Through the Outdoor, del 1979, dove i sintetizzatori tentano di dare una pennellata di colore alla stanchezza compositiva della band (ottenendo peraltro il risultato contrario). A terminare definitivamente l’avventura della band la morte di John Bonham a causa di una pesantissima sbornia. Uscirà ancora un disco a nome Led Zeppelin “Coda”, del 1982, una breve raccolta di brani inediti non rientrati in album precedenti.

E’ innegabile (nonostante venga minimizzata dall’inutile e cieco snobismo di alcuni) l’importanza dei Led Zeppelin, che nella loro carriera hanno influenzato e appagato milioni di persone e molti gruppi delle generazioni a venire, a partire dai Ramones. La conclusione quindi spetta a un brano dall’album “Presence”, dal titolo significativo: “Nobody’s Fault But Mine”. Come dire che il diritto all’autocritica se lo possono prendere solo loro. See ya!

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