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I social media sono davvero “media”? E quanto sono sociali?

I social media sono un incredibile strumento di interazione ed informazione, ma non per questo sono da considerarsi la panacea né la causa di ogni male. Basta saper prendere questo strumento per quello che è, e trarne il meglio che ha da offrirci.

Dalla affollata galassia dei social media è nato un nuovo pianeta, la status-sfera. Un luogo dai mille volti, ognuno plasmato ad immagine e somiglianza di ogni singolo abitante, ognuno dei quali convive in autonome comunità individuali nutrite da un flusso costante di interazioni. La vita sulla status-sfera può essere amena o scintillante, tutto dipende dalla personale gestione del proprio status. Si può seguire a testa bassa le mandrie di trand-setter ed opinion leader (o pseudo tali) che la percorrono in lungo e in largo, o piuttosto si può decidere di farsi seguire, creando attorno alla propria figura un’architettura di significati, messaggi e conoscenze di reale interesse per gli altri abitanti. Naturalmente, la libertà (e la capacità) di essere impresari di sé stessi ha ripercussioni a 360° su quanto continua ad accadere sul pianeta terra, basti pensare al marketing, la pubblicità e, non ultima, l’informazione.

Altrettanto naturalmente, come ogni fenomeno che assume proporzioni planetarie, anche quello dei social media dà adito alle disquisizioni più disparate, passando dalla pragmatica dei numeri ai sofismi dell’intelletto fino ad arrivare, perché no, al pantano della terminologia.
 
È proprio questo, infatti, il punto sollevato su Adage.com da Josh Bernoff, autore di un pezzo nel quale sottolinea la confusione generata dal termine “social media”, individuandone l’origine nel “bagaglio di significati che la parola media porta con sé”. Secondo Bernoff i media sono un prodotto eccezionalmente unidirezionale controllato dalle media company, mentre la galassia sociale nella quale ci aggiriamo è quanto di più multidirezionale si possa immaginare. Ed inoltre, nessuno sembra in grado di controllarla se non i propri abitanti.
 
A questo punto Barnoff, autore di Groundswell: Winning in a World Transformed by Social Technologies, un’analisi strategica su come approcciare le tecnologie sociali, indica alcune possibili soluzioni a questo fuorviante rompicapo terminologico. Se ci si vuole riferire all’intero mondo di persone che si connettono e si rafforzano vicendevolmente (MySpace, YouTube, la blogosfera ecc), allora si può parlare di “social web” o di “social internet” (anche il termine “web 2.0” andrebbe bene se non fosse che non trasmette letteralmente l’aspetto interattivo). Di fronte ad un ambiente che invece raccoglie ed unisce clienti e consumatori, si dovrebbe parlare di “social application”, e questo è il caso di community, siti UGC ecc. Infine, se si entra a far parte di un grande sito sociale (Facebook, MySpace, Twitter, YouTube) bisognerebbe parlare di “social network”. In definitiva, comunque, secondo Barnoff non importa quale di questi nomi verrà affibbiato al fenomeno, l’importante è sbarazzarsi della dicitura “social media”.

A parte l’obiettiva difficoltà (e confusione, questa volta sì) generata dalle sottili distinzioni proposte da Barnoff, l’articolo ha dato adito a diversi commenti, alcuni entusiasticamente favorevoli alla sua teoria terminologica, e altri decisamente più distanti.
 
Ad esempio, c’è chi riconduce al concetto di “media” tutto ciò che si trova tra l’autore di qualcosa ed il proprio pubblico; chi parla di termini-ombrello che con l’evoluzione modificano la propria semantica (tra 10, 20 o 30 anni i new media non potranno essere ancora così nuovi); chi tira in ballo il concetto shakespeariano della rosa, che conserverebbe il suo odore a prescindere dal nome che le attribuiamo; e chi, infine, parla della Rete come di un media a sé, così trasversale che tra qualche tempo non verrà chiamato neanche più così – ma intanto, per semplicità, perché non chiamarlo semplicemente Web?
 
Dalla disputa sulla effettiva natura mediatica dei social media emerge però un altro interrogativo: in realtà, quanto sono sociali questi strumenti?
 
La domanda non intende ripercorre le già battutissime strade della dicotomia tra rapporti reali e virtuali (credo sia ormai assodato che i nuovi media siano uno strumento in più di interazione e contatto, e il problema si pone quando questi diventano l’unico canale di comunicazione), piuttosto il rapporto di uni/multi-direzionlità già dato per scontato da Barnoff.

 
I media tradizionali sono un canale unidirezionale, mentre i nuovi media sono un canale almeno bi-direzionale attraverso cui è possibile commentare, interagire e pubblicare direttamente contenuti. Ma quanto è vera questa definizione nel caso dei social media?
 
L’esempio perfetto ce lo offre il recente exploit dell’attore Ashton Kutcher (ovvero Mr Demi Moore), che ha sfidato la CNN nella gara per diventare il primo utente Twitter a raggiungere il milione di follower.
 
Seguendo il caso sempre su Adage mi sono imbattuto in un interessante articolo di Simon Dumenco in cui l’autore, oltre a riconoscere a Kutcher una certa abilità di self-marketing nella propria gestione della status-sfera, solleva alcuni dubbi sulla effettiva natura della cosiddetta Attention Ecnomy, un’economia volatile in cui le quote di mercato sono sostituite dalle quote mentali degli utenti.
 
In particolare, risulta evidente l’interesse di personalità pubbliche, politici e marchettari nel tessere una rete capillare di seguaci; ma cosa spinge questi ultimi ad essere risucchiati in un vortice partecipativo che, spesso, non apporta nulla di significativo alla propria esperienza?
 
Mentre più di un milione di persone segue con attenzione i generosi tweet di Mr Kutcher, l’attore ne segue a malapena una settantina (al contrario di Britney Spears che segue più di 70.000 utenti, un numero così ridicolmente alto da equivalere a zero, giacché sarebbe impossibile seguirli tutti). Entrambi questi esempi, secondo Dumenco, sono la prova che il regno del social network sia di fronte ad un inversione di marcia che rimanda ad un epoca precedente al 2.0: il broadcasting, la trasmissione tradizionale fondata sul paradigma di una comunicazione che si srotola “da Uno a Molti”.
 
A prescindere dal tipo di media in cui ci imbattiamo, quindi, il risultato è sempre il profitto di pochi a spese dell’attenzione di molti. O meglio, i Molti investono la propria quota mentale in modi che spesso finiscono per arricchire i Pochi. O, in maniera ancora più cinica, una parte dei Molti viene derubata della propria attenzione in cambio di nulla di concreto, se non una grossa perdita nel peggiore dei casi.
Personalmente, trovo l’analisi di Dumenco ineccepibile nel momento in cui si parla di milioni di persone incollate davanti ai tweet del Kutcher di turno, lo stesso però non si può dire nel caso di molte personalità (giornalisti, blogger, politici ecc.) che, pur avendo un rapporto necessariamente unidirezionale con il proprio amplissimo pubblico, in cambio della sua attenzione contribuiscono a formarlo con spunti, argomenti ed informazioni di qualità.
 
A questo proposito mi viene in mente il commento ad una critica mossa qualche tempo fa al messia/farabutto Beppe Grillo. Ebbene, parlando della democraticità orizzontale e partecipativa del Web, si accusava il comico genovese di predicare da un pulpito di pixel e link senza però interagire o raccogliere i commenti dei propri utenti.
 
Socialità, partecipazione, democrazia non significa che ognuno debba necessariamente dire la sua in ogni quando e in ogni dove, altrimenti quando Martin Luther King iniziò ad arringare il proprio pubblico con il celebre incipit “Ho fatto un sogno …”, ognuno dei presenti avrebbe dovuto iniziare a raccontare anche il proprio, e allora probabilmente gli afroamericani starebbero ancora a raccogliere cotone piuttosto che a guidare la Casa Bianca.

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