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 Home page > Attualità > Politica > I Forconi e la Repubblica italiana

I Forconi e la Repubblica italiana

Ho passato in Sicilia un periodo, purtroppo breve, tra i più belli della mia vita e, da ragazzotto, agli inizi della mia turbinosa relazione con il mare, ho navigato con un equipaggio tutto palermitano per alcune estati; sono arrivato a sentirmi quasi a casa a Mondello e la nostalgia mi travolge, pensando a certi momenti trascorsi a Favignana.

Credo che Pirandello sia stato un genio, amo Sciascia e ho letto ogni riga di Vittorini. Grazie a lui ho appreso dell'esistenza dei dialetti gallo-siculi e, essendo quella per le lingue la più vera e costante delle mie passioni, sono arrivato a studiarli. Penso che Camilleri sia il grande sottovalutato della nostra letteratura contemporanea; che sia l'autore di pagine da antologia, non riconosciute come tali solo perché ha troppo successo e scrive troppo bene per piacere a chi, non essendo capace di reggere una penna, e avendo per solito letto pochetto, si occupa di critica letteraria.

Pensando a lui, mi viene da dire che, addirittura, cucino siciliano e mangio, più che altro, siciliano. Una lunga premessa, ma non sono mai stato coinciso, per dire che amo la Sicilia e che la conosco, o meglio conoscevo quella di vent'anni fa, più della grande maggioranza degli italiani. Non abbastanza però, per scrivere dei Forconi qualcosa di diverso da quello che scriverei davanti ad un movimento di protesta che si fosse sviluppato, solo oggi, in qualunque altra parte della Repubblica.

Di quello che, quasi parola per parola, scrivo dei leghisti che, al nord, sono i più vocianti contestatori del Governo. In questo momento la nostra barca nazionale sta facendo acqua da tutte le parti e qualcuno già ci dà per affondati. Siamo davanti alla concreta possibilità di fallire; di non avere di che pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici e le pensioni, e di vedere volatilizzare i risparmi di tre generazioni di italiani.

Stiamo lottando per la nostra sopravvivenza e abbiamo bisogno di tutto, ma proprio tutto, il pochissimo credito che ancora abbiamo sui mercati internazionali. Dobbiamo mostrare ai pompieri canadesi e agli insegnanti neo-zelandesi, oltre alla banche di mezzo mondo, che siamo uniti nel desiderio di rispettare gli impegni presi in nostro nome e per conto nostro; convincerli che vale ancora la pena investire su di noi una parte dei loro denari.

Non è affatto detto che ci riusciremo; nella situazione in cui siamo, per quanto grande possa essere la fiducia che abbiamo in noi stessi, nessuno può garantire che non faremo la fine dell’Argentina. Una fine, anzi, infinitamente peggiore, perché non abbiamo certo le risorse che hanno consentito a quel paese di sopravvivere per qualche anno riducendo drasticamente le sue importazioni.

Abbiamo, con grande ritardo, fatto l’unica cosa giusta; affidato il comando della nostra nave ad un ufficiale competente e rispettato. Si tratta ora solo di mantenere la disciplina e, per qualche cruciale mese, lasciargli la possibilità di manovrare; dovrà scontentare molti, ma, se ce la farà, salverà tutti.

Abbandonare la nave e cercare scampo sopra delle improvvisate zattere regionali, come suggeriscono i leghisti di ogni latitudine, vorrebbe dire, invece, la morte sicura delle singole parti in cui vorrebbero spezzare il nostro Paese: non siamo incagliati, con mare calmo, a poche centinaia di metri dalla riva; siamo in pieno oceano, tra onde gigantesche che a volte fanno sembrare la stessa Italia un misero fuscello.

Quel che scrivo non implica che si debba applaudire l'iniziativa del Governo. Si critichi pure Monti, ma ci si ricordi che siamo in una Democrazia parlamentare; che il Professore è diventato Presidente del Consiglio solo perché ha ottenuto la fiducia del Parlamento che, inoltre, deve approvare ogni sua iniziativa. Si ricordi, insomma, che questo Governo è almeno altrettanto legittimo di qualunque altro abbia retto le sorti della Repubblica e che in una Democrazia (e questo continuiamo ad essere) esistono strumenti diversi dal forcone o dal blocco stradale per esprimere la propria opinione; primo fra tutti, e in ogni caso alle elezioni non manca molto, il voto.

Mi pare stupido accusare i siciliani di aver votato male in passato; è quel che abbiamo fatto tutti, dal Brennero in giù, per un motivo o per l’altro. Ammetto di essere perplesso di fronte al fatto che la protesta nell’isola, amministrata in modo pessimo da sempre, si sia scatenata solo ora, ma non credo che debba essere sovrastimato il ruolo che vi può giocare la mafia; questa pervade ogni aspetto della vita siciliana (basi pensare a come è gestita la sanità in quella regione), ma non si può pensare che decine di migliaia di cittadini si siamo messi in movimento per ordine dei boss e non per una vera indignazione originata da reali e concrete ragioni.

Quel che preoccupa di quel che sta accadendo in Sicilia, come di quel che si agita nelle viscere della Lombardia e del Veneto, è, oltre alla incapacità di fornire una sola soluzione diversa dal “facciamo pagare qualcun altro”, la più completa mancanza di autocritica.

Forconi e Leghisti mitizzano un passato ormai remoto (il “ricchissimo” Regno delle Due Sicilie o il Lombardo-Veneto provincia “privilegiata” dell’Impero Austro-Ungarico) senza fermarsi un momento a riflettere sul fatto che, in pochi decenni, paesi come la Corea sono riusciti, partendo dal nulla, a diventare tra i più sviluppati del pianeta; che, mentre si dibattevano i meriti di Federico II o dei Liberi Comuni, interi continenti hanno, con le proprie forze, cambiato il proprio destino.

La Repubblica Italiana (che ha garantito alle nostre popolazioni i livelli di vita migliori della loro storia, sia detto per inciso) con la sua assurda pretesa di fare pagare le tasse ai propri cittadini, fa una figura miserrima in confronto a questi stati di una sognata età dell’oro; è descritta come una potenza coloniale e le sue leggi sono avvertite come ingiuste imposizioni.

Non sembrano essersi accorti, questi nostri connazionali strabici, che nei comuni, nelle province e ragioni non ci sono “i piemontesi”, ma i siciliani, i lombardi ed i veneti che essi stessi hanno eletto, come hanno eletto gli orribili politicanti che siedono in Parlamento.

Qualcuno ha scritto che “in Sicilia la Repubblica Italiana ha fallito”. Se è così, e si è capito cosa sia la Repubblica, è lo stesso che dire che in Sicilia, come in Veneto i veneti o in Umbria gli umbri, hanno fallito i siciliani.

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