• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Società > Giornalismo. Inseguiamo le lancette

Giornalismo. Inseguiamo le lancette

I giornali sono in crisi. Ma come uscirne? Con le news a pagamento come dice Murdoch o con l’assistenza illuminata come dice De Benedetti? Per trovare la strada non bisogna vagheggiare un brutto passato ma capire la rete ed il presente aderendo ad una realtà in rapida trasformazione ma di cui sono ormai chiare le tendenze. I giornalisti debbono prendere in mano la trasformazione dialogando ed utilizzando il protagonismo dei loro lettori.

Nella crisi dell’informazione, con giornali in grande difficoltà e le emittenti tv alle prese con una transizione complessa al digitale, l’unico media moderno di grande successo si è rivelato Barack Obama.

Il fenomeno del successo elettorale, e della grande presa che il neo presidente americano ha esercitato, è ancora al centro di riflessioni ed analisi. Sicuramente si tratta di uno straordinario cambio di paradigma, dove non è la comunicazione a sostituirsi alla politica, come accade a livelli molto diversi nel nostro paese, ma è il nuovo sistema dei new media a farsi concretamente politica, offrendo figure sociali, culture, linguaggi al mondo delle decisioni strategiche.

Obama è stato lo stratega di un progetto politico che ha inteso la rete come comunità e non più come megafono. Ma è stato anche il pensatore che ha scommesso sulla consistenza di un processo di trasformazione che dava ruolo e spazio alle aree periferiche delle grandi mediazioni sociali: dalla politica, alla comunicazione, al consumo di massa. Chi è oggi a valle dell’offerta si trova ad essere un protagonista attivo e non solo il destinatario passivo della transazione.
 
Consumatori e azionisti
All’inizio dell’estate l’Harward business Review, uno dei più sensibili osservatori sull’evoluzione del capitalismo globale, pubblicò un saggio sull’evoluzione della crisi finanziaria e sulle conseguenze nelle dinamiche del mercato, concludendo con un avvertimento, che sarebbe bene ricordare nel mondo della comunicazione: "nella nuova economia a rete, il valore dei consumatori mira a sostituire per le aziende il valore degli azionisti. Si realizza così la cosi detta customer value proposition".
 
Si tratta della conclusione di un lungo ragionamento, con il quale la rivista economica americana analizzava le trasformazioni sociali che sono alla base del sommovimento che ci investe tutti.

A partire dai nuovi scenari del sistema industriale e commerciale del pianeta. Trasformazioni che vedono emergere un nuovo protagonismo degli individui, che tendono sempre più ad acquisire un ruolo attivo nelle loro funzioni di interscambio sociale, come ad esempio nei processi di consumo, o per venire a noi, in quelli dell’informazione.
Persino per la struttura più verticale che si possa immaginare come è appunto l’impresa, spiegano gli analisti di Harward, è venuto il tempo di utilizzare al meglio la collaborazione e le competenze dei propri clienti, che sempre più tendono a risalire la filiera commerciale, fino a voler condividere la stessa ideazione e confezionamento del prodotto che poi consumeranno.
 
Io credo che questo sia il contesto in cui collocare una riflessione sul mondo dell’informazione e sul ruolo dei suoi agenti principali, come appunto i giornalisti, che meritevolmente ha promosso l’Ordine dei giornalisti di Milano.
 
Temo infatti che sia in atto fra noi operatori della comunicazione una gigantesca rimozione intellettuale che ci fa ignorare, quando parliamo di noi stessi, quelle raccomandazioni che facciamo sempre ad altri interlocutori - i politici, i sindacati, gli imprenditori, gli amministratori - nelle varie circostanze in cui ci capita di incrociarli: guardate dove va il mondo, non limitate il vostro sguardo ai problemi contingenti.
 
Proprio questa rimozione spiega il fenomeno di disadattamento al nuovo che sta investendo giornalisti ed editori, che ai convegni magnificano le future sorti e progressive dell’innovazione per poi ignorarne le conseguenze culturali e strutturali.
 
I dati sono tutti sotto i nostri occhi. Ne cito due, di diversa portata per riassumere quello che ritengo essere un processo, strutturarle, irreversibile e discontinuo: ogni ora nel mondo nascono, in media, 15mila bambini; nello stesso lasso di tempo circa 40mila persone entrano in Facebook.
 
Il secondo dato lo ricavo da una ricerca svolta nell’estate del 2009 da AstraRicerche per conto dell’ordine dei Giornalisti di Milano e su cui ritornerò fra poco: l’89,6% del campione individua Internet come il suo media di riferimento.
 
I due dati, pur nella loro diversità, ci raccontano la storia di un cambiamento epocale che ha l’unico torto di essere avvenuto sotto i nostri occhi e come tale di non avere l’aura della storia. Ricavo una conferma di questo dal dibattito aperto dai grandi editori internazionali riuniti al capezzale del mercato dell’informazione.
 
Il tema è come far sopravvivere i giornali, l’idea è quella di recuperare risorse dai profitti altrui, in particolare dai nuovi soggetti che si sono affacciati sul mercato grazie alla rete. In America, si discute di sgravi fiscali, e soprattutto di trasformare i grandi quotidiani in organizzazioni no profit da finanziare con risorse pubbliche. Su questo è intervenuto lo stesso Barack Obama, ponendo il problema dell’insostituibilità della stampa quotidiana.
 
Murdoch, dall’alto della potenza del suo impero multimediale, ha deciso di fare da solo, accettando la sfida della rete e annunciando il passaggio alla formula pay dei siti dei suoi quotidiani. In Italia l’orizzonte si restringe. Mi riferisco in particolare alle posizioni assunte dalla parte considerata comunque più avanzata del mondi editoriale, come ad esempio quella impersonata dall’ing Carlo De Benedetti.
 
Con vari interventi il secondo editore italiano, confermando la sua avvedutezza, sembra accorgersi dell’insufficienza della soluzione caldeggiata da Ruppert Murdoch. Una recente ricerca commissionata dal Guardian di Londra ci informa infatti che solo il 5% di un campione di utenti tipici dei siti di news, sarebbe disposto a pagare per continuare ad accedere al sito del suo quotidiano preferito.
 
E, dunque, il secondo editore italiano si propone come mediatore nella guerra in atto da tempo fra il popolo della rete e gli organi d’informazione, ipotizzando per l’editoria un trattamento non dissimile da quello riservato ai produttori di canali 
televisivi dalle piattaforme di pay tv: ogni canale riceve una quota degli introiti direttamente dalla piattaforma.
 
L’editore di Repubblica e de L’Espresso avanza un’ipotesi intermedia, diciamo abbozza una terza via: facciamoci pagare dai service providers della rete, dai grandi gruppi che organizzano i servizi, dalla connettività alle ricerche, ossia dalle Telecom a Google.

Trovo questa ipotesi un surrogato dell’aspirazione di Murdoch, e per di più difficilmente praticabile, oltre che culturalmente soprattutto pericoloso, perché prolungherebbe nei giornali l’illusione che in fin dei conti basta cambiare qualcosa per far rimanere tutto come prima. Non a caso la premessa che introduce il ragionamento di De Benedetti contiene quello che ritengo sia oggi l’abbaglio concettuale che ancora sta frenando il mondo dell’editoria italiana.
 
Scrive infatti De Benedetti nel suo intervento sul Sole 24 ore di mercoledì 23 settembre 2009: "dietro ogni notizia che leggiamo sul giornale, scorriamo sul pc, riceviamo via sms, ascoltiamo alla radio, vediamo in tv, c’è il lavoro di molte persone che l’hanno raccolta, controllata, valutata, scritta, registrata, filmata, trattata nel formato necessario, impaginata. Sono giornalisti, operatori, tecnici, ad alta professionalità, retribuiti con i ricavi della pubblicità..." e così conclude il suo 
pensiero: "oggi un’informazione tempestiva, accurata e articolata è sempre più costosa perché le redazioni che un tempo producevano per una sola piattaforma - carta radio o tv che fosse - sono chiamate a fornire news, video, audio, mappe interattive in costante e caro aggiornamento".
 
Ho avuto bisogno di riportare la lunga citazione perché il testo, con lucidissima sintesi, rappresenta il catalogo di tutte le contraddizione professionali e organizzative che spingono il sistema delle informazioni italiano ai margini del nuovo mercato. Infatti, con la sua descrizione del nuovo processo produttivo e del conseguente profilo della redazione contemporanea, De Benedetti ci dice, in buona sostanza, che quello che sta accadendo nulla è se non un fenomeno di innovazione di processo, come dicono gli economisti, mentre la natura e l’ambiente del mestiere poco deve mutare, se non forse negli orari di produzione un pochino più frenetici.
 
Infatti solo in questa logica si spiega come per De Benedetti la convergenza multimediale, di questo sta parlando nel suo articolo e non di altro, si riveli semplicemente un ulteriore accidentato itinerario produttivo che prolunga, rendendolo più costoso, il tradizionale modello di produzione dell’industria delle news.
 
Una considerazione in controtendenza a quanto si verifica in tutto il mondo, dove l’intreccio fra industria della comunicazione e rete ha abbattuto vertiginosamente i costi generali e per unità di prodotto di tutti i servizi informativi, scremando, 
impietosamente quanti invece non hanno saputo adeguarsi.
 
Evidentemente la legge di Moore non è riconosciuta in questo paese. Come è possibile ritenere, come appare dalla citazione riportata, che la transizione in un ambiente digitale delle fasi di produzione di informazioni, in qualsiasi formato, citate dall’ing. De Benedetti (raccolta delle news, validazione, stesura dei testi, edizione di filmati o formati audio, impaginazione e adattamento alla tipologia di piattaforma distributiva) sia considerata una procedura più costosa e laboriosa di prima?
 
A meno di non voler salvaguardare il modello fordista ancora in auge nelle redazioni italiane, dove ogni funzione, ogni mansione, richiede apparati e figure professionali diverse. Insomma nel digitale l’innovazione costa a chi non vuole cambiare.

Se così non fosse, ci sarebbe da chiedersi, senza scomodare Schumpeter, quali motivazioni spingano il possente processo d’innovazione, se non appunto la semplificazione e la riduzione dei costi dei processi produttivi. Insomma perché l’innovazione? Come è possibile che proprio uno degli spiriti più illuminati di fronte a questo scenario innovativo risponda con una richiesta assistenziale, e non si ponga il problema di come adeguare la cultura e gli assetti organizzativi dell’impresa editoriale?
 
Come è possibile che ancora oggi nessuno in questo paese abbia posto all’ordine del giorno il tema di una riflessione di fondo sul modo in cui viene mediata l’informazione, sui nuovi comportamenti sociali, sulle forme antropologiche che ormai modificano il rito della preghiera laica quotidiana, come Hegel definiva la lettura del giornale?
 
Certo che se, come sembra capire dalle parole del secondo editore italiano, tutti i comportamenti in redazioni rimangono come prima, cioè il modello redazionale parcellizzato e stratificato che vige da due secoli, fondamentalmente immutato nella struttura professionale, non viene ridiscusso, e ci si limita ad aggiungere al tradizionale treno di produzione le nuove fasi tipiche della digitalizzazione (multiformati, formattazione ed edizioni specifiche), allora mi rendo conto come l’avvento della rete sia da intendersi come una maledizione divina.
 
E’ come se al tempo dell’introduzione del ciclo a freddo, qualcuna avesse avuto l’idea, per risolvere i drammatici problemi occupazionali che pure si posero in tipografia, ad allungare la filiera e a collocare i computer per la composizione e 
l’impaginazione, dopo le fasi di impaginazione a caldo, invece di sostituire i passaggi obsoleti.
 
Eppure in quella stagione vi fu uno straordinario scatto di impegno culturale della categoria, che volle discutere i vincoli tecnologici, anche alla luce dell’ambizione a non essere esclusi dalla partecipazione alle decisioni strategiche. Oggi invece non sembra esservi traccia di quell’ambizione. Tutti sembrano accucciarsi dietro ad un auspicio continuista, nella speranza che prima o poi la tempesta passerà.
 
Quest’approccio, appunto “continuista" che intende l’innovazione come una semplice questione di strumenti e di applicativi tecnici, unisce, non a caso, la prevalente parte di editori, a settori corposi di giornalisti, intellettuali e decisori politici, che, almeno su questo aspetto del mercato editoriale, potrebbero celebrare finalmente il tanto vaticinato e mai realizzato, patto dei produttori, rassicurandosi vicendevolmente che in fin dei conti ognuno può rimanere eguale a se stesso.
 
Tanto poi pagano gli utenti. Purtroppo l’unica assente in tale prestigioso consesso è la realtà. Come si incarica di dimostrare, fra l’altro, la citata ricerca dell’Ordine dei giornalisti di Milano. I dati non lasciano spazio alle incertezze e alle nostalgie: usa ormai la rete come fonte esclusiva di informazione il 36,7% della popolazione attiva.
 
In rete le fonti primarie sono: i siti generalisti per il 57%; siti specializzati ma non editoriali per il 57,5%; siti di testate per il 53,9%. I Blog di amici e conoscenti salgono, come fonte informativa primaria già al 22,5%. L’86,% ritiene che l’informazione in rete non si debba pagare. E per le notizie i requisiti considerati importanti sono: affidabilità se coniugata con velocità, e soprattutto con l’accessibilità del sito.
 
Insomma si sta definendo una nuova grammatica dell’informazione, con collegata anche una relativa estetica. Il filo che unisce i dati citati riguarda la pretesa sociale che l’informazione, di flusso e in real time, sia oggi una premessa, un servizio universale potremmo dire, che avvia la relazione fra utente ed editore. In questo snodo io rintraccerei la causa dell’attuale congiuntura economica negativa delle testate italiane: nell’ultimo anno le cinque principali testate quotidiane, il giornalismo di qualità per intenderci, hanno perso in media fra il 9 e il 16% del venduto. I cali pubblicitari sono stati attorno al 22%.
 
Per rispondere a questa situazione gli editori dei quotidiani si accingono ad espellere qualcosa come circa 700 giornalisti, scelti soprattutto fra le figure di scrittura. E’ chiaro che intrecciando i due scenari si intravvede fra le cause di mercato della crisi che attanaglia le principali testate italiane qualcosa di più degli effetti di titoli sbagliati, rubriche insoddisfacenti, accentuazioni politiche stridenti: siamo dinanzi ad una disaffezione del segmento alto del mercato, diciamo di quella grande pancia del consumo di news che unisce i cosiddetti ceti professional, che smettono di comprare il giornale, ai nuovi teenager, che non iniziano a farlo.
 
Un’area che al momento sembra oscillare fra la freepress, comunque in affanno, e la lettura sull’IPhone delle news. Si profila un fenomeno di rifiuto dall’alto dell’informazione più accreditata. Possiamo rispondere a questo buco nero che si apre nel mercato con una nuova cassa del mezzogiorno dell’informazione come, estrimizzando le sue parole, rischia di diventare la proposta di De Benedetti?
 
O non ci si deve invece porre il problema di quale forma e quali modelli professionali bisogna assumere per rispondere alla sfida del moderno? Il real time, che abbiamo visto è oggi un pre requisito del consumo di news, che impatto ha negli assetti redazionali? Che funzioni di coordinamento risultano pleonastiche? Che profili professionali nuovi impone? Che forme di relazione suggerisce fra gestori e cooperatori alla notizia?
 
Trovo davvero singolare che su questo tema editori e giornalisti, ognuno per la propria parte, non abbiano trovato il tempo di leggere la realtà e di produrre spezzoni di una nuova cultura d’impresa. Faccio un esempio: nella macchina informativa della Rai una notizia entra nel processo di validazione redazionale attraverso 37 porte, più o meno, ossia 37 momenti di selezione e validazione. 
A mediaset sono circa 16, a BBC, con il doppio dei giornalisti di Rai, sono solo 4. 
Qual è la strada per adeguarsi alla nuova domanda di notizie in real time? Per risolvere questo problema ci vuole l’obolo di Telecom o Google?

Da questa crisi si uscirà con un mestiere assolutamente ridisegnato, e con imprese che non assomiglieranno, nemmeno lontanamente agli attuali assetti delle aziende editoriali. Chi riorganizzerà il settore? Con quali obbiettivi e valori? Non vedo sedi di riflessione su questo punto che credo sia il tema cruciale che stia dinanzi a noi, altro che elemosine digitali. Tanto più che il quadro complessivo si complica per quel fenomeno che l’Harward Business Review, definiva custumer value proposition, quando parlava di una nuova relazione fra consumatore e produttore, o per venire all’informazione, fra redattore e lettore o telespettatore. Su questo, mi pare, si debba discutere e capire.
 
Il nuovo protagonismo sociale degli individui che sta dietro alle diverse forme di User Generated Content è una tendenza strutturale di massa, destinata a mutare la geometria tradizionale delle relazioni di mercato dell’informazione o no? Gli incrementi del cosidetto sistema WEB 2.0, il mondo dei social network per intenderci, sono impressionanti. Citavo il dato di Facebook, ma Twitter non è da meno. Ora Google annuncia la nuova piattaforma Wave, un sistema dove integrare e rendere interoperabili l’insieme dei sistemi sociali online. Si delinea una tendenza che Manuel Castells nel suo nuovo straordinario saggio su Comunicazione e Potere (Bocconi editore), designa come autocomunicazione di massa.
 
Un fenomeno che travalica i confini della semplice informazione, diventando un modo di vivere e di riprodursi, un nuovo sistema sociale. Dove lo scambio di segni e sogni, ossia di informazioni e suggestioni, fra tutti gli individui sostituisce la funzione manifatturiera che aveva fatto crescere l’umanità nel secolo scorso. Il testimonial di questa tendenza, al di là delle mie chiacchiere, il personaggio che conferma come quello di cui parliamo sia un processo di fondo, e non occasionale, un fenomeno che incide sulla realtà, modificando equilibri ed abitudini, è, indubbiamente, come dicevamo all’inizio, il presidente americano Barack Obama.
 
La sua elezione è stata forse l’operazione di comunicazione più sofisticata e innovativa degli ultimi decenni. E non perché Obama sia il frutto di un’azzeccata strategia comunicativa. Il ruolo della comunicazione in politica è solo il rifugio degli imbecilli. Per fortuna la politica rimane, nel mondo una cosa seria e una scienza esatta, che non si misura in spot pubblicitari.
 
Obama ha scelto per il suo azzardo politico - ricordiamo che quattro anni fa era solo un senatore dello stato dell’Illinois, poco più di un consigliere regionale da noi - la rete come base sociale, assumendo i linguaggi e i valori della rete per coagulare quella massa d’urto che gli ha permesso di farsi largo prima, e di vincere poi, la lunga contesa. 
 
Il punto, come ci spiega David Axelrod, lo stratega elettorale di Obama, è che il neo presidente non ha usato la rete per parlare meglio con i suoi elettori. Non sarebbe stata una novità. Già prima di lui altri, compreso Clinton, lo avevano fatto, e con relativo successo. Obama ha usato la rete per far parlare fra loro i suoi elettori. Una scelta non indolore e gratuita. Permettere alla gente di comunicare circolarmente significa creare un nuovo soggetto negoziale, dare alla gente forza di interdizione. Si rischia di essere contestati e condizionati. E così è stato.
 
Il programma di Obama è stato il frutto di una straordinaria discussione online, dove le soluzioni finali, a differenza di quanto pensano e amano i leaders dei partiti nostrani, non coincidono del tutto con quelle di partenza. In rete lo scambio che funziona è quello fra l’attenzione del singolo in cambio del potere di partecipazione. Obama lo ha capito e ha fatto bingo, dando per la prima volta rilevanza politica al popolo della rete. Il problema è che quando si apre questo vaso di Pandora è difficile richiuderlo, come lo stesso capo della Casa Bianca in questi giorni sta sperimentano.
 
Il popolo della rete una volta evocato non si congeda: o sta con te o contro di te. Come le critiche di Move.on, il sito che ha contribuito a mobilitare milioni di professionisti nella campagna elettorale oggi sta rivolgendo alle scelte di Obama sulla guerra in Afghanistan. Tutto questo per noi giornalisti cosa significa?
 
Anche qui pochi dati solo per dare sostanza al ragionamento: ogni giorno sulla rete vengono caricati almeno due milioni di files video inerenti all’informazione; sono almeno 100 milioni al momento i blogs regolarmente funzionanti, censiti dagli studiosi; il costo della produzione di un filmato in buona qualità tv, negli ultimi 15 anni è calato del 1800%, la velocità di trasmissione di un file video contenente un film come Matrix era di 45 giorni nel 1993, oggi non supera i 5 secondi; un comune telefonino che balla nelle nostre tasche contiene la stessa potenza di memoria dell’Apollo 13.
 
E oggi, le minuscole schede di memoria SD arrivano ad accumulare 2 terabyte di memoria, l’equivalente di 17 nila foto ad alta qualità o 1800 ore di video. Facendo un parallelo con il secolo scorso è come se ogni cittadino inglese del XIX avesse avuto la possibilità di disporre di una turbina a vapore nella propria vasca da bagno: quale modello di capitalismo sarebbe nato?
 
Questa è la domanda, tanto più per un sistema che è sempre vissuto di innovazione. Infatti l’amara considerazione è proprio questa: non è il giornalisti il figlio di un continuo e inesauribile processo innovativo? Dalle gazzette francesi di fine del ‘700, al telegrafo ottico, al primo reportage internazionale di Reuter nel 1853 in occasione della guerra di Crimea, e poi ai network diffusi in america grazie alla prima rete telefonica, e via via fino ad oggi il giornale non è stato la sensibile macchina dei sogni? È perché oggi ci si impantana? Forse la novità sta nei dati che citavo prima.
 
Fino alla fine del ‘900 le innovazioni sono sempre state percepite ed implementate nel mondo dell’informazione dal versante della distribuzione: servivano a rendere la redazione e il prodotto giornale più efficace e diffuso. Mentre l’essenza del mestiere si evolveva gradualmente, e poco mutava nei suoi canoni fondamentali: il primo di questi a rimanere intonso era la prerogativa di essere gli unici mediatori della notizia, di essere di fatto noi i media. Anche in virtù del fatto che l’informazione rimaneva una merce scarsa e difficile. Questo blindava la categoria.
 
Ora invece qualcosa si è rotto proprio alla base del processo informativo: le news diventano merce abbondante e tendenzialmente gratuita, e soprattutto, questo è il nodo, si sbiadisce, fino a dissolversi il ruolo del mediatore. Questo è il vero gorgo che rischia di risucchiarci tutti: si restringe lo spazio per il mediatore intellettuale. 
E’ un fenomeno che non riguarda solo noi giornalisti, investe tutte le professioni nobili: l’insegnate, l’avvocato, persino il medico, e, lo abbiamo sotto gli occhi, il politico.
 
Siamo al tramonto di una stagione che ha visto la gente accedere ai diritti e ai servizi sociali tramite figure di snodo. Internet è la conseguenza non la causa del processo: la rete risponde ad una domanda sociale di emancipazione e di protagonismo. Certo, immagino subito l’obbiezione: e i rischi? Cosa significa lasciare solo il cittadino di fronte ai nodi della propria vita, della propria salute, del sapere e dell’informazione. Certo che vi sono rischi. Anche rilevanti e minacciosi: nulla è gratis. Ma sono pericoli inferiori a quanto paventavano i discepoli di Platone di fronte all’avvento della scrittura come pratica corrente in sostituzione della tradizione orale?
 
Il loro maestro nel Fedro vaticinò lutti e ruine per la dispersione della memoria in conseguenza del fatto che ognuno poteva scriversi le cose. E con Gutemberg, non si disse che ogni ordine sociale sarebbe stato divelto per il fatto che ogni ribaldo poteva scrivere un libro e diffonderlo? E infatti problemi ci furono, come ben sanno gli studiosi della riforma luterana. Ma fu meglio o peggio avere la stampa a caratteri mobili? E via via. 

Ogni innovazione è un rischio, il problema è governarlo. Dobbiamo comunque rassegnarci al fatto che non possiamo più arruolarci nell’ esercito del Colonello Ludd, che combatteva i telai a vapore a Manchester a cavallo fra il ‘700 e l’800. 
 Del resto i luddisti, contrariamente al senso comune, la loro battaglia la vinsero, ritardando di almeno 20 anni l’introduzione dell’automazione nell’industria tessile inglese. Ma questo fu possibile, onde sgombrare il campo da tentazioni in agguato, solo perché Manchester allora era il vagone di testa del convoglio dell’innovazione.
 
Se decideva di fermarsi, si fermavano tutti. L’Italia invece, aimè, è la coda del treno, e se rallentiamo ci sganciano e ci sostituiscono. Il punto è che siamo entrati in una nuova era, dove l’abbondanza di contenuti è il nuovo paradigma e bisogna adattarsi. Del resto come scrive K. Kelly, uno degli osservatori più acuti della rete: "l’idea che ognuno oggi possa comporre una canzone, girare un film, pubblicare un libro o realizzare un reportage, non è meno eccessiva di quanto 150 anni fa non fosse la convinzione che chiunque avrebbe potuto scrivere una lettera o scattare una fotografia". E che questa realtà bussa ormai alle nostre porte lo dimostra il fatto che ogni evento, dal più solenne e drammatico, al più futile e insignificante, oggi è documentato, e raccontato da fonti non professionali.
 
 L’aneddotica ve la risparmio per non infierire. Ma come dicevo i problemi non mancano. Ne affronto uno, che di solito è il cavallo di battaglia dei critici della rete: l’attendibilità. Le osservazioni sono note: informazione abbondante ma chi la certifica, che affidabilità ci danno i blogs? Le risposte degli smanettoni sono altrettanto note: cento occhi valgono più di due, wikipedia corregge in 4 minuti gli errori mentre l’enciclopedia britannica le perpetua, ecc. Andiamo al cuore della discussione visto che qui nessuno deve vendere aspirapolveri ad altri. 
 
Esiste un problema di verificabilità. La rete, amplificando la gittata e la quantità delle notizie lo moltiplica. Ma, intanto, nessuno mi pare possa rivendicare una stagione dell’oro alle nostre spalle. Quando le notizie erano poche e i mediatori erano sacerdoti indiscussi l’affidabilità era sempre limitata e relativa. Vogliamo fare la contabilità delle bufale stampate o delle reticenze dei tg? Vogliamo ricordare che quando la Rai era di qualità, come dice qualche nostalgico anche da versanti insospettabili, la parola divorzio fu pronunciata in un telegiornale solo nel 1972? Vogliamo ricordare la campagna sui mostri delle stragi poi rivelatisi innocenti?
 
Ma voliamo alto: vogliamo notare che dopo 70 anni di celebrazioni di tutti i media sugli effetti terrorizzanti della famosa trasmissione di Orson Welles alla radio di New York del 1938, ora grazie alla rete si è scoperta che si tratta di una bubbola e 
nessuno, almeno nessuno di quelli citati da giornali, televisioni e stazioni radio di tutto il mondo, si è mai buttato dal balcone o è fuggito terrorizzato dai marziani con i propri figlioletti in grembo?

Vogliamo ricordare il caso della famosa Jessica Linch, la marine catturata dagli iracheni nell’avanzata americana del 2003, celebrata come eroina da tutti i media del mondo: un’eroina che, dopo essere stata catturata, stuprata e torturata, secondo la versione accreditata, si è scoperto, con una semplice inchiesta in rete da parte di due laureandi inglesi, aver subito solo una distorsione alla caviglia? 
 E’ il browsing, bellezza, verrebbe da dire.
 
Il nodo in realtà è un altro: non è la rete ma è il real time ad imporre una nuova dimensione al concetto di attendibilità. E dunque, siccome, come diceva la CNN fin dal suo nascere nel 1980, oggi vale il principio di Slow News No News, si pone il problema di quali capacità, attitudini e strumentazioni un giornalista deve avere per accertare, in real time, l’affidabilità di una notiziacolta nel brusio della rete.
 E’ evidente che proprio questo brusio rende l’affidabilità un valore processuale, non più definibile una volta per tutte, ad una data ora. Il real time, combinato con il flusso continuo, con i monitor sempre accesi, rende una notizia una proposizione 
permanentemente aggiornabile e rettificabile.
 
Questo introduce una nuova relazione fra utente e operatore: la notizia non è più una rivelazione, che il secondo concede al primo, ma è il risultato finale di una collaborazione, di una conversazione si dice oggi, fra le due figure che si impegnano a completare ed arricchire il dato informativo primario. Capite bene che in questa logica mutano ruoli, valori, funzioni. E torniamo così alla nuova organizzazione redazionale e al diverso rapporto fra quanto si fa dentro e quanto accade fuori della redazione. 
 
La competitività di una testata, il valore di un giornalista, la sua autonomia di fronte all’outsourcing informativo sta proprio nella sua abilità ad ottimizzare i nuovi fattori produttivi, che sono appunto il brusio della rete e l’user generated content. Quali soluzioni, quali tecnologie, quali saperi per essere più potenti e dunque più autonomi? Paradossalmente proprio certi editori, e anche certi giornalisti, proprio fra quelli più scettici e diffidenti del nuovo, tendono a rispondere a queste domande con una delega in bianco a Google o chi per lui.
 
Che ci vuole, rispondono i diffidenti, se proprio vogliamo credere alla rete allora affidiamoci ai più bravi e non se ne parli più. Chi scrive è sicuramente uno dei più appassionati afficionados dei ragazzi di Mountain View. Ci sono andato persino in vacanza, trascinandomi dietro una famiglia furibonda, per respirare un po’ d’aria di innovazione. Ma proprio perché ho visto da molto vicino il meglio che ci sia, credo che bisogna andarci piano. Io credo che Google, come tutta la tecnologia, non sia nè di destra nè di sinistra, ma neanche neutra.
 
Tutti gli agenti intelligenti della rete, e più in generale del sistema microelettronico si basano, questa è la differenza fra la seconda e la terza rivoluzione industriale, sulla delega ai dispositivi tecnologici di funzioni umane pregiate. Come diceva già Nietzsche di fonte ad un prototipo di macchina da scrivere che gli misero di fronte "sento che interferisce con il mio pensiero". Non c’è bisogno di essere superuomini per intuire quale sia oggi il potenziale di interferenza con il nostro pensiero con l’avvento dell’intelligenza artificiale.
 
Fra qualche giorno ci sarà la manifestazione promossa dalla FNSI sulla difesa della libertà d’informazione. I motivi sono fin troppo noti. Mi permetto di esprimere un desiderio, vorrei vedere un giorno una manifestazione in cui i giornalisti si mobiliteranno per rivendicare le proprie autonomia e la propria sovranità rispetto ai motori di ricerca importati, ai desk digitali acquistati a scatola chiusa, alle banche dati affidate a terzi, all’intelligenza professionale data in appalto. E’ possibile che non esista un motore di ricerca italiano sulla criminalità organizzata? È un segno di autonomia? E vale la considerazione: ma se non abbiamo neanche i computers cosa volete che pensiamo alla luna? Con questo criterio in africa non ci sarebbe il più alto indice di diffusione di telefonini e il Brasile non sarebbe diventato la terza potenza informatica nell’audiovisivo.
 
Diventa, dunque fondamentale poter concorrere alla definizione di quegli assetti concettuali, di quei meccanismi semantici, di quei vocabolari automatici in virtù del fatto in real time, la macchina pensa per noi. In questo passaggio, e arrivo al punto finale e scusatemi la noia, sta il ruolo propulsivo del nuovo giornalista. Nella capacità di interferire lui con la macchina dando un’anima alla tecnologia, una cultura di riferimento, performandola e riproggettandola.
 
Guardate che non è fantascienza. Ormai nel mondo è così. Il valore aggiunto di un’impresa editoriale sta proprio nella sua capacità di progettare le infrastrutture intelligenti che guideranno la sua produzione. Ed a farlo nel mondo sono i giornalisti, non gli ingegneri. Proprio perché questo è un processo dove le tecnicalità sono semplici commodities - tutto si può fare con la tecnologia, ormai, basta capire cosa si vuole e per quali obbiettivi. E per questo si deve partire dai contenuti, dai linguaggi, dalla relazione che si vuole instaurare con il proprio lettore. Non a caso nelle grandi mostre e fiere del settore, penso al NAB di Los Angeles o all’IBC di Amsterdam, appena concluso, i prodotti editoriali innovativi sono presentati dai giornalisti e non dagli ingegneri.
 
Questo è il nuovo ruolo della categoria, diventare i nuovi architetti dei nuovi linguaggi, affiancando e assistendo le figure sociali che si mettono in proprio nell’informazione, diventando i consulenti dell’autocomunicazione di massa di Castells. Per ottimizzare il contributo informativo che può venire dai propri utenti significa conoscere il territorio, condividere le culture professionali, interpretare le comunità. Google questo non lo può fare. E’ troppo poco? Era più esaltante fare gli inviati e i corrispondenti? Forse, ma quanti vissero la stagione dei piè di lista? Quanti sono stati quelli che hanno fatto gli inviati e i corrispondenti in Italia?
 
Ho fatto un piccolo conto dell’invidioso: dal 1945 ad oggi gli inviati all’estero, diciamo quelli che hanno prodotto qualche articolo di approfondimenti e non si siano limitati a seguire la tournè del ministro del momento, sono stati complessivamenti circa duecento venti, e i corrispondenti una cinquantina. 
Vi paiono numeri da difendere? E le altre migliaia e migliaia di colleghi che si sono succeduti nelle redazioni in questi ultimi 60 anni che facevano: in grande maggioranza il desk, e lo facevano copiando le agenzie, o no? 
 
Pensiamo che per l’informazione estera le nostre testate sono state tributarie alle grande agenzie internazionali per il 94% del pubblicato, e per le notizie nazionali per il 65%. Vi sembra una stagione esaltante da difendere? O oggi, invece non abbiamo una possibilità in più per nuotare controcorrente? Non è il caso di prendere atto che quando si è nella tempesta il marinaio manovra le vele e non cerca di cambiare il corso del vento. E dunque apriamo una vera riflessione su noi stessi, magari realizzando una vera inchiesta sulla nostra categoria, le nostre 
redazioni, i nostri editori, dando corpo e materia ad una discussione strutturale che ridisegni il profilo di un mestiere che non ha dato il meglio di se. Di una funzione che rimane fondamentale, purchè sappia parlare ai nuovi partner dell’informazione che sono i cittadini.

Disegnare le infrastrutture della propria redazione significa anche prefigurare i nuovi servizi che una redazione può realizzare per le nuove utenze. E’ vero infatti che smagrisce la massa degli utenti dell’informazione generalista, ma la stessa ricerca di Milano ci conferma che aumentano le nicchie di utenti specializzati, si estende la coda lunga dell’informazione. In questa nuova domanda sta gran parte del nostro futuro occupazionale: meno reportage, ma più servizi territoriali o flussi di news specializzate.
 
Questa è la partita per rimetterci al centro della scena. Vedete, dico questo giocando i pochi spiccioli di simpatia che forse mi sono guadagnato: io credo che come giornalisti abbiamo perso la nostra battaglia contrattuale non per come si sia conclusa la vertenza ma per come sia iniziata.
 
Con una piattaforma, e più in generale una cultura che, proprio come l’ing De Benedetti, considera l’innovazione un pedaggio da pagare alla contemporaneità. 
Io credo che invece l’innovazione sia una straordinaria opportunità che abbiamo per essere più liberi, più autonomi e meno dipendenti da editori e istituzioni. Sicuramente più di prima e meglio di prima.
 
Ad una condizione: smettiamo di sparare contro agli orologi, come faceva per disperazione i comunardi di Parigi nel 1870 e mettiamoci in concorrenza con chi sta davanti, senza rimpiangere chi galleggia alle nostre spalle. Inseguiamo le lancette.

Commenti all'articolo

  • Di Damiano Mazzotti (---.---.---.36) 30 settembre 2009 14:43
    Damiano Mazzotti

    La crisi è dovuta anche al calo della pubblicità dovuto alla crisi economica: le aziende hanno meno soldi da investire e preferiscono investirli nel web dove i contatti possono venire misurati...

    L’auditel è stato inventato e strutturato da un "amico" di Berlusconi... E quindi probabilmente è un altro dei suoi artefatti inattendibili...

    E poi secondo voi chi guarda tutte quelle pubblicità che sono nei settimanali femminili? Sono soldi buttati nel cesso e sempre meno aziende possono permetterselo...

    E poi la gente ha sempre meno tempo per leggere: le chiacchere al telefonino, la play station, la palestra o l’estetista, i social network sul web...

    La gente non ha più tempo per leggersi le stronzate romanzate del 90 per cento dei giornalisti...

    Perchè il confronto tra le notizie della stampa, della Tv e del Web fa emergere che i veri professionisti sono sempre più rari... e aumentano a dismisura i leccapiedi e i leccaculo...

    A questo punto è meglio leggersi un libro invece di ascoltare i comunicati stampa a fvore di un partito o di un politico o di un imprenditore...

  • Di illupodeicieli.leonardo.it (---.---.---.192) 30 settembre 2009 16:27

    E’ anche vero che vengono considerate notizie i titoli degli articoli, i commenti, i titoli che vengono letti nei tg o nei giornali radio: pochi hanno in realtà voglia di leggere o approfondire,se non quello che gli interessa:esempio le leggi economiche, se domani piove, una pubblicità particolare che ci ha preso. Diverso è l’aspetto che è stato evidenziato e riguarda il rapporto con i lettori:certo che se è di quelli alla Aldo Forbice che ti frena e ti toglie l’audio o di altri che pur ricevendo le email o le lettere non le pubblicano, siamo lontani da chi cerca la verità, da chi vuole un confronto.C’è poi da considerare se le notizie devono o possono "portare a qualcosa" se cioè si tratta di "riferire solo ciò che succede" , se c’è solo la funzione di informare "come fanno i comuni con l’albo pretorio", oppure se oltre a questo c’è anche una funzione propositiva: in questo caso occorre tenere presente che a parole nessuno vuole un Guru o un maestro da seguire passivamente, ma poi in tanti seguono e si fidano ciecamente fino a idolatrare il giornalista X o Y. Ed è altrettanto vero che chi riconosce l’informazione basilare o vitale, non dovrebbe far pagare l’accesso alle notizie, cosa fatta da Blondet (o effedieffe) e anche da Massimo Fini.Da ricordare che diversi giornali oltre ad avere una versione online dei quotidiani o dei settimanali, forniscono alcune notizie solo in abbonamento. Faccio presente che talvolta briciole di queste arrivano ai portali,come Libero, alle agenzie tipo Ansa, fino ai blog, ma si tratta di frasi che ,private del contesto e dei periodi precedenti o successivi, hanno più l’effetto che raggiunge chi legge i titoli dei giornali e pensa di aver letto tutto il quotidiano e di essere aggiornato. A monte c’è anche la considerazione se sia giusto salvare o meno i quotidiani, domanda che da ex commerciante affianco a questa domanda ossia se sia giusto salvare i negozi che sono schiacciati dalla grande distribuzione e dai centri commerciali. Ritorno nel seminato e dico che se dovessi adoperare lo stesso metro usato per chi sciopera per il posto di lavoro o si lamenta perchè deve chiudere la propria attività, dovrei dire "chi se ne frega! deciderà il mercato e per chi non ci sa stare peggio per lui", ma non è così quando si parla della differenza che passa tra una notizia vera e una falsa quando non sia il primo aprile. E’ stato ricordato l’episodio dell’Iraq, ma appunto il mondo delle news è pieno di casi simili, come il cormorano incatramato o i bambini nell’incubatrice, per restare nell’area del Golfo Persico: per il momento già il fatto di poter scrivere e la possibilità di essere letti, come accade qui su agoravox, è già tanto ma non abbastanza dato che chi non usa il web per informarsi o per verificare, resta fuori e deve solo sperare che alcune info vengano riportate da altri media che lui adopera. Chiudo osservando come anni addietro qualcuno disse (lo avranno poi fatto più volte nel corso degli anni) come Elton John (per ragioni sue) di chiudere la rete: altri sanno o sostengono che è dagli Usa che si controlla tutto, che in teoria è sufficiente bloccare o oscurare alcuni server o cose simili (dovete perdonare la mia ignoranza,ma spero mi capiate) per mettere in crisi milioni di persone o intere nazioni (mi pare fosse accaduto in Israele qualcosa del genere o sempre in Medio Oriente): mi chiedo senza voler andare fuori tema, se è stata valutata la cancellazione della rete. 

  • Di Rocco Pellegrini (---.---.---.3) 30 settembre 2009 17:49

     è lodevole premere su un settore perchè prenda coscienza del nuovo che avanza e cominci a ragionare sui suoi problemi senza esorcismo ma non credo che avverrà.
     Come sempre nelle vicende umane è la necessità che induce il cambiamento e la resistenza al cambiamento è la divisa di tutti fino a quando i"calci nel culo" della realtà non inducono la necessaria presa di coscienza.
     Murdoch vuole far pagare le news? Faccia pure. Si accorgerà a sue spese con un ridemnsionamento della sua forza di quanto folle sia la linea scelta. De Benedetti vuole l’assistenza da Google e dalla telecom, come tu ha ricordato? Si accomodi pure e vedrà come "sa di sale lo pane altrui".
     Insomma io non mi aspetto grandi prese di coscienza da chi gode di rendite di posizione e penso che, tranne lodevoli eccezioni, faranno come i nobili al tempo della rivoluzione francese che si ribellarono al loro ridimensionamento per finire tutti impiccati in quattro e quattr’otto.
     Naturalmente oggi nessuno viene impiccato ma perde potere nel senso che non ha più centralità dentro il quadro mediale.
     Penso, per chiudere a redazioni nuove basate su tools come google wave. Riusciranno ad essere sui fatti meglio, in modo più professionale ed a costi minori. Avranno successo ed alla fine il mondo del futuro sarà loro. Questo, naturalmente schematizzando al massimo.


  • Di Truman Burbank (---.---.---.253) 30 settembre 2009 23:30

    Lì dove i media di regime lamentano la crisi e la carenza di finanziamenti, Il Fatto quotidiano vende tutte le copie.
    Andrebbe considerata l’idea che per uscire dalla crisi bisogni fare giornalismo invece che passare il tempo a riprendere dispacci d’agenzia e dichiarazioni di politici.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares