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Garlasco, un caso di scuola

L’omicidio di Chiara Poggi a Garlasco, le indagini della Procura della Repubblica di Vigevano, l’imputazione del reato ad Alberto Stasi, fidanzato della vittima e, oggi, dopo due anni, nuove perizie con risultati diametralmente opposti all’esito delle indagini, tutto ciò finisce per assumere generale valenza nel considerare il disastrato stato dell’amministrazione della giustizia nel nostro Paese.

Tutti noi, bene o male, facciamo quotidiano uso di un computer, tutti abbiamo un nostro riferimento su dove acquistare attrezzatura informatica, software e quant’altro; e ad esso ci rivolgiamo per installazioni, per rimozione di virus, per eliminazione di malfunzionamenti, etc.. Credo che quello del vostro reporter nell’arco di una settimana avrebbe saputo dare risposta al quesito degli inquirenti sull’attività svolta da Alberto Stasi il giorno del delitto e lo avrebbe fatto con esattezza.

Perché qualcuno, nel caso di Garlasco, ha detto castronerie e, per ben due anni, nessuno lo ha smentito? Come è potuto succedere che il giovane Stasi sia stato per ben due anni a dire la verità senza essere creduto, posto ad arrostire sulla graticola dei media?

Forse la risposta è questa: dinanzi a questo tipo di vicende, l’immediato, impulsivo ed irrazionale, comune sentire richiede con urgenza qualcuno da impiccare, senza tanto stare a pensare se è innocente o colpevole. Gli ebrei si sono addirittura inventati il capro espiatorio, perfettamente innocente, ma destinato ad essere ucciso dopo aver preso su di se le colpe di tutta la collettività.

Certamente questo modo di sentire non appartiene a quella che Platone chiamava anima razionale, ma a profondi meandri della mente umana, pertinenti più l’anima concupiscente o quella impulsiva. Comunque sia di ciò si tratta pur sempre di tendenze dell’uomo e non è possibile eliminarle, ma non è certamente corretto non contrastarle. Un sistema giudiziario efficiente deve sapere opporsi ad esse nel migliore dei modi ed essere rispettoso dei diritti dell’imputato.

Come ottenere ciò è di solare evidenza: occorre rimuovere il tabù del segreto istruttorio e dare nuove competenze ai giudici che sovrintendono alle indagini, ossia ai GIP.

Indubbiamente la fase inquirente iniziale richiede la riservatezza dell’attività del Pubblico Ministero, ma, se l’obiettivo è quello di ricercare la verità, si giunge sempre al punto in cui è necessario coinvolgere a pieno titolo l’imputato. Egli deve essere posto a conoscenza dei fatti a lui imputati, deve poter dare la sua versione dei fatti e deve potersi affiancare con i propri legali e con i propri esperti all’attività del PM; anche se a quest’ultimo la cosa non piace.

Se così fosse stato nel caso di Garlasco, difficilmente il processo ad Alberto Stasi avrebbe avuto inizio, con evidente scarico di lavoro del Tribunale. Ed in tanti altri casi di pubblico dominio (uno per tutti quello del padre dei fratellini di Gravina) forse si sarebbero evitate ingiuste detenzioni cautelari.

Curioso come la prospettata riforma del processo penale, vista da chi la propone come la panacea per tutti i mali della giustizia e dai magistrati come un inaccettabile attacco alla nostra Costituzione, nulla preveda al riguardo. Purtroppo, anche questa riforma sa di "pannicelli caldi", di iniziativa di tipo gattopardesco.

E, per favore, che nessuno dica che occorrono due anni per esaminare il contenuto di un computer: quanti hanno contribuito affinché fosse questo il tempo necessario, dovrebbero passare un bel po’ di mesi a Domodossola a guardare i treni che vanno e vengono dalla Svizzera. Il Designatore del nostro campionato di calcio Collina, quando vede un arbitro fuori forma, lo mette tre mesi a riposo. Facciamo la stessa cosa con magistrati e con periti, non vi è alternativa se vogliamo che le nostre istituzioni funzionino.

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