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Facciamo un patto. Ricominciamo a pensare i “giornali”

Facciamo un patto. Ricominciamo a pensare i “giornali”

Un nuovo modo di fare informazione, è questo l’obiettivo che ci dovremmo dare. Qui in Italia, e non solo. Partendo da un presupposto: che nessuno è autosufficiente e nessuno si può bastare. Ormai i soggetti informativi sono molteplici, ibridati di fatto, ma senza una progettualità comune che diventi forza, proposta, progetto.

Da un lato i giornali nel loro complesso rapporto con il potere e con la necessità di un intervento finanziario pubblico per poter sopravvivere. Dall’altro la televisione, con la propria voracità di risorse, centro della lotta per il controllo dell’informazione di massa. In mezzo al guado le radio, in molti casi soggette alle stesse contraddizioni della carta stampata, fondate sulla consapevolezza di dipendere in gran parte per la propria sopravvivenza dal contributo pubblico. E alla fine la rete, l’insieme professionale e amatoriale di sogetti informativi che opera al di fuori della logica del sistema dei media tradizionale. Di quest’ultimo ambito tutti vedono le potenzialità ma nessuno ci investe in termini concreti, anche economici, a partire dalla pubblicità. Rimane così, in termini di efficacia, un mezzo di fatto tronco, almeno per quel che riguarda il nostro Paese. Le potenzialità sia in termini di informazione che di diffusione di dibattito politico culturale rimangono in gran parte inespresse. Ripeto, questo avviene soprattutto in Italia a dimostrazione che il nostro sistema editoriale e informativo è definibile, ottimisticamente, come primitivo.

Di certo è che il mondo dei media tradizionali, in particolare la carta stampata, vedono Internet quasi esclusivamente come un canale di rilancio del prodotto “madre”. Internet come vetrina e specchietto per le allodole. E questo è ciò che avviene nei migliori dei casi. In realtà il giornalismo e l’editoria italiana, in molti casi, considerano la rete non una prospettiva e un’opportunità tutta ancora da verificare e esplorare, ma un nemico da contrastare. Da un punto di vista certamente economico, visto che la Internet toglie un cospicuo numero di lettori ai giornali cartacei. Ma c’è anche una questione politica e culturale che non deve essere assolutamente sottovalutata. Una grossa fetta del giornalismo italiano vede la rete come una minaccia al proprio ruolo e alla propria identità. In un sistema asfittico come quello attuale, dove l’accesso alla professione è fortemente contrastato sia dall’ordine che dal sindacato, attraverso l’esasperazione di una concezione corporativistica della società e del lavoro, il mondo del giornalismo italiano si schiera su posizioni ultra-conservatrici. La libertà di stampa e di espressione in questa fase della nostra storia, nonostante la costante aggressione che questi ambiti di libertà subiscono da parte di vari poteri palesi e occulti, diventano fattori periferici nell’azione di rappresentanza da parte della Fnsi e dell’ordine. Periferici non perché ritenuti poco importanti, ma perché prima di tutto la categoria ha l’obiettivo di sopravvivere. Sopravvivere alla contrazione del mercato. Sopravvivere a nuove forme di linguaggio. Sopravvivere alla fine del monopolio della notizia. Sopravvivere, quindi, come gruppo professionale privilegiato. Anche se questo dovesse contrastare, come avviene, con l’articolo 21 della Costituzione. Questo tipo di posizione ovviamente riguarda molto più direttamente l’ordine professionale, per evidenti ragioni sia collettive/identitarie che economiche. Ma nel passato anche il sindacato ha giocato un ruolo fortemente conservativo, optando per scelta e impostazione a atteggiamenti definibili solo come corporativistici. Questo è avvenuto ad esempio nella conduzione della prima vertenza dei lavoratori al momento della chiusura del settimanale Avvenimenti. Questo è avvenuto anche in altre vertenze, dalla prima di Diario negli anni Novanta a quella subito successiva de l’Unità. E poi ancora in altre fasi di trattativa sia con gli editori che con la politica e le istituzioni nell’ambito del finanziamento pubblico alla stampa. Posizioni che alla lunga hanno sclerotizzato il “governo” della rappresentanza del giornalismo italiano, schierandolo su posizioni elitarie, fornendo materiale ai detrattori più feroci materia per parlare di “casta”. Una chiusura estremamente pericolosa proprio nel momento in cui la tecnologia prospettava con sempre più evidenza l’assalto del palazzo da parte del cittadino-autore. Non più semplicemente pubblico. Non più solo utente.

L’altra faccia della Luna non versa però in condizioni migliori. Una grande parte del giornalismo partecipativo e del movimento di blogger (in grande crescita) si sta arenando nell’autocompiacimento. Nello strillo. Confondendo opinione con notizia. Fenomeno che è nato dalla grande esigenza di libertà che attraversava la società italiana stritolata da vccchi e nuovi meccanismi di manipolazione e controllo dell’informazione da parte del sistema politico e corporativistico italiano. In realtà gli spazi informativi realmente efficaci sono davvero pochi anche sulla rete. Perché legati molto a un lavoro discontinuo, molto personale, senza parametri di confronto, raramente orientato a ricercare qualità obiettività. C’è un’enorme differenza fra un giornalismo rigoroso, anche schierato, e l’attivismo militante. La differenza è nella notizia, nel diritto di essere informati e nel dovere di informare.

I blogger, i tanti che fanno citizen journalism, hanno fatto e continuano a fare un lavoro incredibile, profondamente innovativo e rivoluzionario. Sì, rivoluzionario. Non dobbiamo avere paura di usarla questa parola. L’esplosione dei sistemi open di informazione, delle piattaforme di citizen journalism, delle migliaia di blog “informati” che operano nel nostro Paese e poi, da ultimo, l’esplosione del fenomeno dei social network, hanno mandato letteralmente in tilt il sistema informativo tradizionale. Ma si tratta, comunque, di un lavoro basato sulla militanza e in quanto tale soggetto a innumerevoli fluttuazioni, sia in termini quantitativi che qualitativi.

La sfida, quella vera, è mettere in relazione il giornalismo più tradizionale con il mondo della rete. Creare non le “convergenze” di cui parla il sistema informativo (o meglio il marketing editoriale), ma le alleanze. Lo scambio di competenze. La collaborazione attiva e diretta fra soggetti informativi (quali essi siano).

La rete è un media di una potenza incredibile, ma ha un suo limite. Il limite è tutto nella veridicità e correttezza dell’informazione. La selezione ovviamente la fa il lettore, ma non può bastare. O meglio, non ci deve bastare. Il lavoro giornalistico non è solo quello di cercare le notizie e darle. Ma anche verificarne la veridicità, renderle comprensibili, inattaccabili. Le notizie non sono per forza “vere”. Le notizie per essere credibili devono essere verificate. E questo avviene attraverso il lavoro collettivo di verifica e di impostazione. Collettivo. È così che si costruiscono i giornali, quelli belli, quelli che ci piacerebbe trovare nelle nostre edicole o vedere sui nostri teleschermi. Uno sforzo intellettuale collettivo.

Non è roba da poco. Ma è qui che si gioca tutto.

Sono convinto, e non sono il solo, che solo attraverso questa azione collettiva e consapevole sia possibile liberare il lavoro del giornalismo dal fenomeno del corporativismo che lo sta mettendo all’angolo, e contemporaneamente sdoganare il lavoro di tanti blogger, siti, gruppi di network. La sfida è creare una collaborazione non strumentale. Dare la possibilità alla “rete” di contaminare seriamente il mondo dell’informazione tradizionale e viceversa che il mondo dell’informazione tradizionale, del giornalismo professionale, si vada finalmente a mettere in gioco con la rete.

Con un obiettivo. Creare comunità che producano giornali. Giornali intesi come soggetti collettivi di informazione. Autorevoli. Credibili. Efficaci. Costruiti dal meglio che si può mettere in campo da entrambe i “mondi”. Questo è l’unico patto possibile.

Ci stanno provando quelli di Agoravox.it. Come quelli del gruppo di InformareXResistere su Facebook. Ci stiamo provando anche noi de “gli italiani”. Non importa quale sarà il “media” usato, se sarà la carta, la plastica, la rete, l’etere. L’importante è rimettersi in gioco e fare informazione.

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