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Dopo i Rom le Tasse. Le solite formule del solito populismo

Con la lotta all’ ’immigrazione, c’è da scommetterlo, il cavallo di battaglia delle destre europe - e di quella italiana in particolare - nelle campagne elettorali prossime venture sarà quello della impossibile - tanto sono solo promesse - riduzione del carico fiscale.

Una premessa a un discorso necessariamente troppo breve: non sono di sinistra, non lo sono mai stato né mai lo sarò. Inoltre non ho mai lavorato nel settore pubblico e, da un ventennio, sono un lavoratore autonomo. Non ho mai goduto di un centesimo di aiuti pubblici, non ho mai avuto commesse pubbliche e al massimo ho tenuto qualche corso, per delle cifre poco più che simboliche, presso la locale sede del Club Pensionati - non allo sbando, perché i pensionati di qui, quasi tutti ex marinai, non sbandano mai -.

Non è possibile, se si vuole uscire dalla situazione in cui ci troviamo, nessunissima riduzione del carico fiscale. E’ possibile, certo, un trasferimento di parte di questo carico dal lavoro alle rendite, dalle attività produttive a quelle speculative e dai ceti popolari a quelli con redditi più elevati, ma questo è un discorso che mi piacerebbe affrontare dopo.

Ridurre le tasse, se non vogliamo prenderci in giro, significa tagliare la spesa pubblica; l’unica altra maniera sarebbe far debiti, ma, grazie all’illuminata gestione di "Bottino Craxi", dei suoi pentapartitici successori, e di Silvio “Vi ridurremo l’ICI” Berlusconi, questa strada ci è preclusa: il debito pubblico italiano è già talmente elevato da metterci a rischio di fare, finanziariamente parlando, la peggiore delle fini.

Ridurre la spesa pubblica, in un paese dove gli investimenti sono ridotti all’osso, significa tagliare stipendi e pensioni. Sì, verissimo, ci sono immani sprechi, ma a parte quel che s’intascano direttamente i nostri politicanti, e che rispetto al totale del bilancio dello stato non è molto significativo, tutto il resto della spesa pubblica alla fine si traduce, lo ripeto, in questo: stipendi e pensioni.

Ora qualcuno tra i vari soloni dell’economia che circolano in rete dovrebbe spiegarmi una cosa.

Tutti quanti mi dicono che se non riparte il mercato interno – se i cittadini non tornano a consumare – non si può neppure pensare di uscire dalla crisi; non nell’attuale situazione internazionale e per un paese che ha le nostre, tuttora rilevanti, dimensioni economiche. Bene: e come cavolo si stimola la crescita del mercato interno tagliando stipendi e pensioni?

Più in generale, la domanda è sempre rivolta agli stessi economisti della mutua, mi possono illuminare citandomi un solo paese, con un’economia di dimensioni paragonabili a quella italiana, che sia uscito da una stagnazione economica, non parliamo addirittura di crisi, con una politica di tagli alla spesa pubblica. Io non ne conosco proprio nessuno.

Non pensino neppure di citarmi gli Stati Uniti del vecchio Ronnie: quel simpatico vetero socialista, negli otto anni del suo mandato, raddoppiò il debito pubblico degli Stati Uniti e aumentò, non ridusse, la spesa pubblica. Il boom economico che contraddistinse la sua presidenza si spiega con quei debiti e le ingentissime spese del settore statale – si costruivano carrarmati e sommergibili anziché ponti e dighe, ma il discorso non cambia di una virgola – aumentate nel più rooseveltiano dei modi: i tanto pubblicizzati tagli alle tasse che pure furono effettuati durante l’era Reagan - così si formarono i debiti - ebbero un’importanza decisamente minore.

Esiste una teoria economica, quella che potremmo chiamare del grasso che cola, che deve essere stata sviluppata da un branco d’intellettuali, con pochi o nessun contatto con la realtà economica, rinchiusi nella propri torre d’avorio.

Secondo questi differentemente intelligenti gli sgravi fiscali di cui godono i redditi medio alti e le aziende si traducono in consumi ed investimenti più elevati con conseguente beneficio per tutta quanta l’economia e, in particolare, per i ceti più poveri.

La teoria, discutibile in tempi di crescita economica, è addirittura ridicola in una situazione come la nostra.

L’imprenditore, che sopravvive a malapena in una situazione di mercato difficilissima, se viene beneficiato da uno sgravio fiscale non corre certo ad assumere personale o ad acquistare macchinari; prende quei denari e, giustamente, li mette da parte in attesa di tempi migliori. Lo stesso può dirsi per le famiglie con redditi elevati; il denaro in più che dovesse arrivare loro in questo momento verrebbe, per la più parte, messo da parte.

Gli sgravi fiscali NON sono la strada per uscire da una crisi economica. Non da soli, perlomeno.

La riduzione della spesa pubblica, poi, fa esattamente l’effetto contrario: produce un’immediata contrazione dell’economia. La manovra da 24 miliardi, disegnata a colpi di tagli alla spesa, produrrà, nei prossimi tre anni, una diminuzione complessiva del PIL del 1,5 %. Chi lo dice? Un pericolosissimo anarco-comunista: il nostro beneamato Giulietto “il Ragioniere” Tremonti.

Intendiamoci: se non eliminiamo gli sprechi del settore pubblico e non aumentiamo l’efficienza dei suoi lavoratori, da questa situazione non riusciremo ad uscirne. Sono necessarie delle norme che permettano di incentivarne la produttività, per realizzare questo obiettivo, e altre ne servono per mettere nelle condizioni di rendere al meglio quei dipendenti pubblici che sono sotto o male utilizzati. Un esempio banale? Abbiamo decine di migliaia di autisti di auto blu cui dovremmo fare cambiare lavoro al più presto: non si tratta di licenziarli, ma di metterli alla guida di un autobus o, semplicemente, di fagli fare altro.

Resta che per fare ripartire la nostra economia, dopo oltre un ventennio di stagnazione – è questo che rende la nostra situazione diversa da quella degli altri paesi, noi siamo stati colpiti dalla crisi mondiale quando, di fatto, in crisi eravamo già e da molto tempo – abbiamo bisogno del denaro per sostenere un programma d’investimenti in alcuni settori chiave.

Le infrastrutture, prima di tutto, e non parlo di alta velocità e altri orpelli, ma di un’efficiente e moderna rete di trasporto merci, per iniziare, qualcosa da cui non possiamo prescindere se vogliamo sfruttare al meglio i vantaggi offerti dalla nostra posizione geografica. Dobbiamo investire poi nel settore dell’energia, se volgiamo offrire alle nostre imprese energia a prezzi analoghi a quelli pagati dai loro competitori internazionale e, soprattutto, dobbiamo investire in educazione e ricerca.

Secondo l’OCSE la nostra popolazione è la più ignorante – peggio di noi solo i cittadini degli stati più poveri della Confederazione Messicana – tra quelle dei paesi che aderiscono a quell’organizzazione. Ancora:, se gli italiani sono ignoranti quanto e più dei messicani e, per di più, il nostro paese non ha neppure le risorse naturali del loro, qualcuno, magari tra i fautori dei tagli alla scuola pubblica, mi vorrebbe spiegare per quale miracolo, a medio termine, in Italia si dovrebbe vivere meglio che in Messico?

Prima di tutto, però, dobbiamo trovare i soldi per aumentare le pensioni più e gli stipendi più bassi. No, non faccio un discorso di giustizia sociale – ci mancherebbe solo che mi facessi contagiare dal bieco buonismo di tanti amici di sinistra – ma di fare ripartire i consumi. Vi sembrerà patetico, ma se diamo cento euro in più al mese a lavoratori e pensionati che sono al limite della sopravvivenza, possiamo essere certi che quei soldi verranno immediatamente spesi, quindi rimessi in circolazione, non fosse altro che per mangiare un po’ meglio, comprare un maglione nuovo perché quello vecchio ha i buchi e sostituire le scarpe che cadono a pezzi . Esagero? Fate un bell’esercizio: provate a vivere, senza altri aiuti, in una grande città con uno stipendio da operaio, o, peggio ancora con una pensione minima; vedrete che non avrete più bisogno di seguire una dieta per mantenere il vostro peso forma.

I denari dati alle categorie svantaggiate costituisco, dunque, contrariamente a quelli degli sgravi fiscali per i redditi più elevati o per le aziende, un ricostituente ad effetto immediato per il mercato interno; servono a far ripartire i consumi, quindi la produzione, quindi gli investimenti che, da sempre, seguono e NON anticipano la ripresa economica.

Per far ripartire il paese, altro che baggianate, servono soldi e i soldi si devono andare a prendere dove ci sono: le tasse vanno aumentate, nel loro complesso, almeno per qualche anno, non diminuite. Vanno diminuite le tasse sul lavoro e sulle attività produttive, certo, ma bisogna anche pensare d’introdurre delle forme di tassazione patrimoniale, perlomeno per i grandi patrimoni, e trovare il modo tassare le rendite finanziarie. Non parlo di una tassa sui titoli di stato, ovviamente, ma è assurdo che i guadagni di borsa non entrino nella dichiarazione dei redditi. E’ assurdo.

E’ la ricetta di Bertinotti, mi diceva qualcuno, commentando un mio precedente articolo sull’argomento. E chissenefrega. Hitler respirava, e allora? E’ l’unica ricetta praticabile, se si ha un minimo di onestà intellettuale, a meno di convincere gli altri paesi europei a mettersi a stampare euro, ma questa è decisamente un’altra questione. Non è affatto detto, però, che si riesca a mantenere l’inflazione che così si genererebbe, al livello che ci farebbe comodo: la storia dell’economia, ancora una volta, ci insegna che di solito chi si avvia per quella strada va incontro al disastro.

Se qualcuno ha da obiettare a quanto ho detto, mi faccia anche il piacere di fornire delle soluzioni alternative e di dirmi in quale epoca e paese avrebbero funzionato. Se lo farà, lo ringrazio anticipatamente per avermi insegnato qualcosa, altrimenti può benissimo andare a scopare il mare assieme alla marmaglia populista che ci governa.

Non si vincono le elezioni così? Senza suonare la grancassa della riduzione del carico fiscale? Beh, io credo invece che se qualcuno dicesse la verità agli italiani, e di spiegare loro come stanno le cose, le elezioni si possano vincere esattamente così. Bisogna trovare le parole giuste, il modo di farle arrivare ai cittadini e, soprattutto, avere il coraggio politico di farlo.

Serve una mossa pubblicitaria? Ce n’è una semplicissima e di grande effetto: dimezzare, con effetto immediato, gli stipendi ai nostri parlamentari.

Con sei o settemila euro al mese i poveretti dovrebbero, comunque, riuscire a sopravvivere e si darebbe davvero, al Paese, il segnale che sono arrivati tempi nuovi e che, sacrificandoci tutti un poco, ce la si può fare.

Ah, vero, dimenticavo. Non è un’ipotesi da considerare; qualcuno che è rimasto seduto per un paio di legislature in parlamento, me lo ha già spiegato: questo sarebbe populismo. Ma per piacere …

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