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Dai Tudor alla generazione 2.0, le vie per proteggere la proprietà intellettuale

La cultura è stata liberata o resa preda dei pirati? Questo il dilemma di internauti, autori e soprattutto di chi ha fatto della vendita di opere d’ingegno un mestiere e una fonte di guadagno. Nell’era di Internet è tornato di moda lo slogan Sessantottino “vogliamo il mondo e lo vogliamo subito”. 

Stavolta la ribellione non è contro il potere costituito, ma contro il Copyright: tutti desiderano tutto, tanto meglio se gratuitamente. Pagare un pedaggio, anche piccolo, per avere ciò che è a disposizione sembra ormai inconcepibile alla massa di utenti della Rete. Una legislazione che sembra una giungla non migliora certo le cose. Tutti d’accordo sulla necessità della proprietà privata per tutelare gli oggetti materiali (chi vorrebbe costruire una casa per affittarla e vedersela espropriata senza avere incassato neanche il primo euro?), quando si parla di proprietà intellettuale cominciano i distinguo. Siamo legittimati a scambiare musica, libri o film senza tener conto di chi li ha creati?

Uno “Gnu” per amico - Per questo, già nel XVI secolo, la monarchia inglese aveva introdotto il Copyright (letteralmente “diritto di copia”). Non dunque una tutela per gli autori, ma un mezzo per controllare la circolazione delle opere stampate. Ora che Internet ha moltiplicato le possibilità di scambiare file, il rischio che si corre è che senza diritti d’autore, l’autore resti senza diritti. È quello che sarebbe potuto succedere a Richard Stallman, l’inventore della prima alternativa al Copyright. Cosa succede quando l’opera intellettuale comincia a circolare?

Stallman aveva progettato un programma software, che poi aveva ceduto in una versione incompleta (detta di pubblico dominio) alla ditta Symbolics, che l’aveva richiesta per sperimentare delle migliorie. Quando Stallman ha chiesto alla Symbolics di visionare il prodotto modificato, la concessione gli è stata negata. Era il 1984 e dal lavoro di Stallman nasce una nuova licenza, la GNU General Public License. Il concetto alla base è semplice: il detentore del copyright, cedendo la versione di pubblico dominio, può decidere di trasferire tutti i suoi diritti agli utenti del programma, a prescindere dalle modifiche apportate al programma originale.

E se copio un testo? – Basta fare un giro sui siti internet per trovare una infinità di testi, canzoni, video, fruibili gratuitamente. Violano la legge? Non sempre. Spesso, come nel caso di alcuni quotidiani italiani, i lavori sono coperti da una licenza di Creative Commons, che dà la possibilità agli autori di “scorporare” alcuni diritti. Così facendo potrebbero autorizzare l’uso domestico della loro opera, ma non la sua commercializzazione. Il Creative Commons consente l’accesso regolamentato alle opere d’ingegno, purché non a scopo di lucro, conservando agli autori la parte dei guadagni della vendita garantita anche dal Copyright. Che sia un’astuta pratica promozionale messa in atto da chi ha capito prima e meglio le potenzialità della Rete?

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