• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Società > Cultura dell’ascolto e benessere sociale

Cultura dell’ascolto e benessere sociale

Quali risultati sociali porta la cultura dell'urlo (nei talk show, nei videogiochi, nei social network)? Cominciando a praticare una cultura dell'ascolto, quali vantaggi può ottenere la società? Litigare l'uno con l'altro quali nostri bisogni soddisfa? 

Chi litiga pretende comportamenti che la controparte non è disposta a eseguire e così alimenta e moltiplica le discussioni conflittuali. Cosa diversa è discutere come risolvere il problema, cioè come trasformare la situazione di disagio in una situazione migliore per tutti (secondo l’economista Paul Samuelson, se peggiora la posizione anche di una sola persona non c’è benessere sociale).

Chi litiga tende a concentrare la propria attenzione sul conflitto invece che sul problema, investendo le proprie risorse nel tentativo di risolvere il conflitto invece del problema, cioè nel tentativo di risolvere la relazione comunicativa invece che trasformare il fatto oggettivo. Ed è proprio ciò che si ottiene con questo atteggiamento: si risolve, si conclude, si scioglie la relazione. In qualche modo questo significa che si tende a sciogliere la società.

Credo che non a caso nel nostro periodo storico sentiamo moltiplicarsi i discorsi legati allo scioglimento dei rapporti interpersonali: dall’aumento delle separazioni coniugali (dati ISTAT 2009: 29,7% di separazioni per matrimoni che durano mediamente 5-9 anni), all’aumento degli omicidi, anche efferati. Siamo testimoni di un vertiginoso aumento dei discorsi che la società fa intorno alla violenza: dalla cronaca nera ai videogiochi sanguinolenti, dai suicidi disperati fino all’ingombro delle aule di giustizia, arrivando a doversi inventare un modo per risolvere i problemi correlati a questi fatti (per esempio liberare i tavoli dei giudici), ma non senza litigare su quale sia la soluzione migliore per farlo.

Al riguardo c’è una domanda banale e trita che sento fare spesso: questo incremento di discorsi violenti e sulla violenza (o quantomeno conflittuali) è legato a un incremento dei fatti violenti rispetto al passato oppure questi fatti aumentano perché se ne parla di più? Questo è un problema di posizioni, di punti di vista, che non mi interessa, anzi ritengo che dobbiamo ignorarlo perché questo modo di analizzare la realtà non ci sta portando niente di buono o quantomeno niente di diverso. Invece dobbiamo cambiare punto di vista.

Ad esempio, non sarà che l’aumento dei discorsi nel campo della violenza è legato al nostro bisogno di parlarne per essere ascoltati, per liberarci delle ansie e dei timori legati al conflitto? Se discutiamo sempre più di queste cose, non è per caso che siamo ascoltati sempre meno? Questo è tipico della postmodernità, di Internet e dei social media, di un’industria editoriale in cui si moltiplicano gli autori ma crollano le vendite: oggi tutti possono urlare, ma nessuno viene ascoltato così qualcuno arriva a urlare più forte e poi qualcun altro passa alle vie di fatto, che è un modo eccessivo di urlare, è un modo per chiedere di essere ascoltati e capiti.

Antropologia e psicanalisi hanno rivelato il legame tra violenza e segreto: ogni segreto (il tabù freudiano) è un tentativo di rimozione della violenza (l’omicidio dell’orda); ma, per lo stesso principio, la violenza è un tentativo di rimozione del segreto, ossia è un modo per comunicare qualcosa che qualcun altro impone di non comunicare (infatti il conflitto sorge dall’infrazione dei valori personali: io ritengo giusto comunicare qualcosa, ma tu ritieni giusto che io non lo facca).



È facile accorgersi, analizzando e metacomunicando dal di fuori, che l’imposizione del silenzio o il rifiuto di ascoltare sono una violenza; ma quando si è invischiati in una relazione si riesce solo a comunicare. Così, invece di andare incontro per interagire con chi urla (perché chi urla fa paura e ricorda la violenza, che deve essere segregata), invece di accogliere il grido di aiuto, si finisce per vociferare che qualcuno ha urlato e questo brusio alimenta altre emozioni negative che non vengono accolte da nessuno, ma che alimentano altri mormorii, che poi crescono e via dicendo.

Anche questa è comunicazione e produce i suoi effetti, purtroppo negativi perché paradossalmente questo modo di comunicare alimenta il segreto, che benché urlato, non è stato accolto da nessuno. E se le persone e i media continuano a borbottare e a urlare significa che non ci si sente ascoltati, figuriamoci capiti. Se la società continua a strillare messaggi sui conflitti è perché la società non ha capito l’origine e il senso di questi conflitti perché, per paura, li sfugge, li evita, tenta di reprimerli con la forza o di ignorarli facendo vedere (in televisione o sui giornali o nei blog) che invece se ne occupa.

L’ipocrisia è anche sensoriale: qualcuno usa la voce per manifestare un malessere e qualcun altro ne discute usano le immagini (filmati televisivi, articoli giornalistici, etc.). I due canali comunicativi non sono allineati, anzi, sono in conflitto (visione e udito impegnano circuiti cerebrali differenti, leggere è cosa diversa da ascoltare). Quindi: prestiamo attenzione a questi conflitti? E, se lo facciamo, come dimostriamo di essere interessati? Eh sì, perché non basta ascoltare, ma bisogna anche dimostrare di avere ascoltato e di avere capito.

Non basta guardare la televisione o leggere il giornale perché non possiamo interagire con la televisione e col giornale. Non basta partecipare a una discussione su Facebook per dire la nostra morale perché nell’infosfera digitale non c’è verifica di coerenza. Non basta predicare bene perché bisogna anche razzolare altrettanto bene. Servono comportamenti quotidiani coerenti, reali e prosociali. I veri mediatori fanno questo: si mettono in mezzo al conflitto per venire in contro alle parti (equiprossimità) e per ascoltarle, dimostrando di voler capire (ascolto attivo), e in questo modo cercano di trasmettere la voglia e l’esigenza di capire l’altro, il diverso; magari non di accettarlo, ma almeno di volerlo capire per farlo sentire un essere umano.

Perché quando manca l’empatia, quando non percepiamo la nostra presenza nell’altro e quando l’altro non vede se stesso in noi, siamo disposti a fare le cose più turpi o semplicemente le più sciocche, anche litigare otto anni per trenta euro (caso reale trattato alla Corte di Appello di Roma). Allora, magari non per l’altro, ma per evitare noi di compiere azioni inutili e ridicole, è il caso di cambiare atteggiamento. Per concludere: con quali azioni quotidiane possiamo tessere una cultura diversa da quella che ci porta a litigare per le questioni di principio?

— Intervento al convegno "In medio stat virtus". Cesena, 15.12.2012

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares