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Bilancio dello Stato, misure di risanamento ed evasione fiscale

Un saluto a tutti quanti si accingono a leggere questo mio secondo contributo per il giornale on-line Agoravox. Ragionando sul problema dell’inflazione nello scorso numero di questa rubrica abbiamo visto che la politica economica attuata dall’Amministrazione Pubblica ha un impatto importante sugli effetti che, in un periodo di crisi economica, ha il meccanismo inflazionistico, cioè quello di impoverire soprattutto le classi economicamente più deboli.

Per poter effettuare una politica che ostacoli questo effetto, lo stato ha però bisogno di risorse economiche esso stesso, per cui il risanamento del bilancio è un punto chiave perché si possa attuare una politica economica che contrasti l’effetto inflazionistico.

Nella sua macrostruttura il bilancio dello stato è semplice e conoscere le cifre coinvolte è di fondamentale importanza per giudicare l’impatto economico di misure tese al risanamento.

Se infatti è spesso chiaro quali sono i sacrifici chiesti da una certa misura economica, non è affatto chiaro ai più quanto questa incida sul fabbisogno statale e se essa sia realmente efficace in misura proporzionale ai sacrifici che chiede.

Intendiamoci, l’impatto economico non è la sola cosa che conta. Ci sono misure che hanno un alto valore morale e simbolico e, seppure economicamente quasi inefficaci, sono spesso le prime ad essere messe in atto, poiché creano quel volano di consenso che permette poi di essere credibili quando si chiedono sacrifici alla popolazione.

Non è un caso che tutti i leader politici che hanno condotto a termine con successo un risanamento economico dello stato che hanno guidato hanno anche condotto una vita personale moderata, e spesso austera addirittura oltre le necessità. Non che quello che un leader risparmia con una vita austera abbia impatto sul bilancio pubblico, ma ha un grande impatto morale motivando la popolazione a seguire la stessa strada di un leader che sente come simile a sé.

Non voglio quindi suggerire che azioni a basso o nullo impatto economico non vadano fatte, ma in ogni caso è bene sapere perché si fa una cosa e quale effetto è lecito aspettarsi.

Tornando al bilancio dello stato, la sua macrostruttura è in sé più semplice di quella del bilancio di una famiglia. Le entrate sono costituite al 99% da due soli termini: le entrate fiscali, che nell’anno 2011 sono stimate a circa 464,5 miliardi di euro dal documento ufficiale di bilancio, e le entrate non tributarie, per esempio da beni immobili o altre fonti di guadagno che non siano imposte dirette o indirette, che ammontano a circa 25.7 miliardi di euro.

Il totale delle uscite è invece di circa 580 miliardi di euro, di cui circa 368 di spese correnti e circa 212 di rimborso prestiti.

Sulle spese correnti hanno una importanza fondamentale due voci: la spesa per la macchina pubblica, che tra stato ed autonomie locali ammonta a quasi 180 miliardi di euro (quasi tutti per le retribuzioni del personale) e la sanità, che ammonta a circa 110 miliardi di euro.

Il rimborso prestiti invece è costituito praticamente interamente dal rimborso dei titoli di stato in scadenza durante l’anno.

Non è facile vedere che il saldo primario, cioè la somma tra dare ed avere senza tener conto degli interessi da pagare sul debito è piuttosto negativo, per un ammontare di circa 155 miliardi di euro.

A fronte di tale passivo lo stato pensa di emettere ancora titoli di stato, cioè di rifinanziarsi con debito per 221 miliardi di euro. Dato che il debito è diminuito (poiché è stato rimborsato) di 212 miliardi ed è aumentato di 221 si ha una previsione di un aumento netto del debito di 9 miliardi che porta il saldo ad un valore positivo di circa 105 miliardi con cui lo stato paga appena i circa 91 miliardi di euro di interessi che gravano sul bilancio.

Considerato che queste sono ancora cifre di previsione, che devono tener conto di un margine di errore, esse non lasciano molto spazio ad investimenti per contrastare la crisi e stimolare la crescita se non si fa qualche cosa per ridurre le spese.

Tanto per fare un esercizio di valutazione dell’impatto economico di una misura da tutti auspicata, cerchiamo di capire se, tagliando in modo massiccio i privilegi dei politici si effettua una manovra efficace economicamente.

In Italia abbiamo circa 1000 parlamentari, se uniamo ministri, sottosegretari, consulenti fissi e collaboratori a vario titolo, arriviamo ad una cifra di circa 3500 persone che gravitano intorno al parlamento ed al governo.

Supponiamo di risparmiare per ognuno di esse la cifra di 150000 euro.

Questa è una cifra enorme vista come risparmio medio. Lo stipendio medio di un parlamentare si aggira intorno a 380000 euro l’anno (un poco di più i senatori ed un poco di meno i deputati) e certo non guadagnano così i vari portaborse e consulenti, il cui guadagno medio non eccede la stima per eccesso di 100000 euro l’anno.

Per fare questo risparmio quindi si dovrebbero di fatto eliminare tutti i consulenti e far lavorare i parlamentari ed i ministri con appena di più che lo stipendio di un quadro di azienda. In questa ipotesi infatti un parlamentare guadagnerebbe circa 35000 euro lordi l’anno.

L’eliminazione dei consulenti poi non sarebbe senza ripercussioni. Infatti quando un parlamentare si trovasse a non avere competenza personale nel campo specifico in cui si colloca una norma su cui deve esprimere un parere (pensiamo ad un deputato che è stato imprenditore e deve giudicare una legge che regolamenti determinate pratiche sanitarie) non avrebbe una risorse propria per procurarsi le informazioni che gli servono, ma si dovrebbe rivolgere per esempio al partito, che dovrebbe pagare in proprio le consulenze.

Ebbene, questa misura draconiana e di fatto per molti motivi inattuabile, produrrebbe un risparmio di 0.59 miliardi di euro, una goccia nel mare del debito di bilancio, assolutamente priva di efficacia economica.

E’ da altre parti quindi che bisogna tagliare. Cerchiamo quindi di capire se un altro elemento di cui molto si parla, cioè l’evasione fiscale, ha in effetti impatto sul bilancio dello Stato.

In Italia il Ministero delle Finanze stima l’evasione fiscale pari circa al 17% del PIL, la bellezza di più di 270 miliari di euro (più della metà del gettito realmente versato).

Non bisogna però pensare che tutti questi soldi siano realmente recuperabili, un tasso fisiologico di evasione esiste a diverso titolo in tutti gli stati del mondo ed è irrealistico pensare che si possa andare sotto tale tasso fisiologico.

Se consideriamo quale sia in percentuale del PIL l’evasione media negli stati nord europei (Francia, Germania, Belgio, Olanda, Svizzera, Austria etc..), che sono i più efficienti sotto un punto di vista di prelievo fiscale, scopriamo però che essa si aggira intorno al 8-9%.

Pensare di andare al di sotto di questa cifra è irrealistico qualsiasi misura si adotti. Se però si abbassasse fino al 10% l’evasione, si recupererebbero ben 110 miliardi di euro, molto di più di qualsiasi manovra correttiva di bilancio si possa adottare.

Nel giudicare però l’effetto che si avrebbe da un tale improvviso recupero dell’evasione fiscale, si deve tenere conto di un fattore di deformazione del mercato che deriva dal fatto che l’evasione non è distribuita uniformemente tra le categorie di lavoratori, ma è concentrata in quelle categorie che per la struttura del loro lavoro possono evadere (non che glia altri siano migliori, semplicemente non riescono a farlo).

Per un semplice esempio (e non me ne vogliano i molti ed ottimi amici che ho nella categoria, è solo un esempio) consideriamo gli avvocati e supponiamo che essi evadano circa il 50% del reddito percepito che si aggiri intorno ad una cifra tale da assestare l’aliquota media intorno al 40% di imposizione.

Supponiamo che la piazza di Milano fornisca un mercato di 40 milioni di euro l’anno per servizi legali ed un avvocato per vivere al livello giusto relativo alla media della sua professione abbia bisogno di 80000 euro netti di reddito annuo; queste sono cifre messe qui a caso, non vengono da statistiche e mi servono solo per mostrare la natura del fenomeno.

Dato che l’aliquota media fiscale è del 40%, il reddito lordo medio per avvocato dovrebbe essere di circa 133000 euro annui il che fa si che la piazza di Milano potrebbe dare lavoro a circa 300 avvocati.

Cosa accade però se il 50% di questo reddito non subisce imposizione fiscale? Il reddito lordo per avvocato che serve per percepire un reddito netto di 80000 euro si riduce a circa 107000 euro, cosicché la piazza di Milano finirà per ospitare circa 374 avvocati invece di 300.

Nella realtà quello che accade è più complicato, il reddito non è invariante con l’imposizione e ci sono parecchi altri fenomeni da considerare, resta però il fatto che l’evasione droga il valore del marcato e permette di dare lavoro a più professionisti (o artigiani, o qualsiasi altra cosa) di quelli che il mercato sosterrebbe in condizioni di imposizione fiscale completa.

Quello che accade se improvvisamente l’imposizione fiscale è ripristinata ai livelli corretti dipende dal comportamento del rapporto prezzi-domanda ed è comunque del tutto equivalente ad una improvvisa contrazione del valore globale del mercato.

In particolare, in un mercato completamente regolato, in cui i professionisti non si fanno di fatto concorrenza a causa del calmiere sui prezzi e sui tipi di servizi posto per esempio dagli ordini professionali, si avrebbe un generale diminuzione del livello di vita dei professionisti stessi, mentre in un sistema con perfetta concorrenza, il mercato escluderebbe i professionisti di minor successo preservando il livello di vita di quelli che riescono a restare nel mercato stesso

Naturalmente la situazione reale sarebbe come sempre un via di mezzo, ma in ogni non sarebbe rosea per i nostri avvocati, neanche per quelli che hanno sempre pagato le tasse e si chiederebbero perché questa specie di disastro economico li sta colpendo.

Come si vede, il danno comportato dall’evasione è addirittura molto più vasto del semplice ammanco di denaro pubblico: è costituito da una generale distorsione del valore del mercato di beni e servizi che rende difficile eliminare in tempi stretti e con misure rigide l’evasione stessa, se non a prezzo di sofferenze sociali anche rilevanti, quando l’evasione è così diffusa come in Italia.

Questo non vuol dire che l’evasione non si può o non si deve recuperare: essa si può e si deve ridurre a livelli fisiologici, ma ciò non si può fare in modo banale, a meno di affrontare poi ripercussioni sociali difficilmente governabili.

Qualsiasi strategia efficace di lotta all’evasione deve essere una parte di una globale manovra di risanamento dello stato, che mentre riduce i privilegi e chiede sacrifici venga percepita come equa e necessaria da tutte le categorie ed alla lunga produca un generale miglioramento del livello e dell’efficienza dei servizi erogati dallo stato e della capacità dello stato stesso di affrontare le situazioni di crisi e di disagio.

Quindi la lotta all’evasione è certo una leva efficace e necessaria per il risanamento, ma non può essere l’unica. Ci si può chiedere allora come si può impostare una strategia più globale.

Dopo un ragionamento così pieno di cifre come quello fatto oggi, mi considero fortunato se qualche lettore ancora ha il coraggio di seguirmi, e sento la necessità di fare una pausa.

Nel prossimo numero di questa rubrica analizzeremo un poco più in dettaglio altre possibili leve di risanamento, cercando di intravedere quali siano le possibilità a disposizione di chi governa l’economia per condurre una manovra percepita dai più come equa ed insieme economicamente efficace.

Per il momento ringrazio tutti quelli che mi hanno seguito e gli do appuntamento al mio prossimo articolo.

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