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Aspettando la riforma della Giustizia – Separazione delle carriere secondo Letizio Magliaro

La conclamata crisi politica allontana nel tempo in maniera indefinita ogni possibilità di riforma della Giustizia. Volendo, però, disinteressarsi in toto delle vicende causate dai “grandi della politica”, il vostro reporter desidererebbe completare le sue notazioni alla raccolta di saggi raccolti in  Giustizia – La parola ai magistrati, coordinato da Livio Pepino, ex Presidente di Magistratura Democratica. Quest’ultima volta tocca alla Separazione delle carriere, su cui scrive Letizio Magliaro, magistrato.

La tesi dell’autore è che la separazione delle carriere non è determinante nel generale quadro negativo del nostro sistema giudiziario e che, comunque, essa è un fatto negativo, sia per la difesa dell’autonomia della magistratura sia per il regolare svolgimento dei processi penali.

Egli, però, non convince sino in fondo.

Invero Magliaro ha una visione, per così dire, asimmetrica del processo penale, con:

  1.   una parte privata, l’imputato;
  2.   una parte pubblica, il Pubblico Ministero;
  3.   il giudice terzo;

e, così facendo, dimentica del tutto un’altra parte privata, quella lesa.

In sostanza, nella generalità dei casi, lo schema è simmetrico, con due parti private contrapposte, ossia l’imputato e la parte lesa, e due parti pubbliche, ossia la pubblica accusa ed il giudice.

Ciò premesso, l’autore non dimostra che sia negativa una assoluta indipendenza della magistratura requirente e della magistratura giudicante, anche reciproca.

Rimane, inoltre, fuori dal suo saggio il problema del corretto rapporto fra le due parti private, imputato e parte lesa, ed il magistrato requirente, rapporto confliggente con le esigenze del segreto istruttorio. E’ questo un punto critico del sistema giudiziario sin dagli anni della rivista «L’eco dei Tribunali», che ha iniziato le sue pubblicazioni a Venezia nel 1850. In tema di difesa tecnica un magistrato, il consigliere P. Bini, si rammaricava che la riforma del processo penale, avviata in Austria dopo la grande paura dei moti rivoluzionari del ’48 – fondata sulla contrapposizione dialettica tra la procura di Stato posta a tutela della società e la difesa tecnica posta a tutela dell’imputato – non era stata «portata ai suoi ultimi e ragionevoli termini» collocando su un effettivo piano di parità i rappresentanti dello Stato e l’accusato anche nella fase istruttoria. Ciò perché è esattamente questa la fase processuale che quasi sempre risulta decisiva ai fini del giudizio, in quanto anche un semplice errore o una banale omissione in operazioni precluse alla difesa tecnica possono risultare fatali, segnatamente quando si tratti di adempimenti irripetibili.

Quanto sopra vale a maggior ragione per le parti lese, che vedono il magistrato requirente come un giudice di primissima istanza operante, nella gestione delle indagini, con una autonomia inaccettabile. Un esempio concreto? Il caso del professore Adolfo Parmaliana, suicida perché coinvolto in un caso di mala giustizia della fase requirente, per il quale non sono è stata individuata responsabilità alcuna, cosicché potrebbe tranquillamente riverificarsi domani mattina. Di questa vicenda ha parlato esaustivamente Alfio Caruso nel saggio Io che da morto vi parlo.

* * *

In tutto questo ed in tutto quanto riportato nei precedenti articoli del vostro cronista su Giustizia – La parola ai magistrati, cosa c’azzecca il cosiddetto lodo Alfano? Nulla. Appunto.

In conclusione il vostro cronista raccomanda caldamente la lettura di questo coraggioso libro, nel quale il cittadino, per la prima volta o quasi, trova affrontato il problema della Giustizia, e di disinteressarsi per quanto possibile del “teatrino della politica”.

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