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Aspettando la riforma della Giustizia – Libertà personale e custodia cautelare

Tarda ancora ad apparire il progetto di riforma governativa del nostro sistema giudiziario e se ne può approfittare per leggere il saggio "Libertà personale e custodia cautelare" di Andrea Natale, giudice per le indagini preliminari a Torino, saggio contenuto nel testo "Giustizia – La parola ai magistrati", coordinato da Livio Pepino, ex Presidente di Magistratura Democratica.

Il saggio si fa apprezzare per chiarezza e profondità di analisi, restando prezioso per i non “addetti ai lavori”, desiderosi di formarsi proprie convinzioni sull’argomento.

L’autore parte dalla Costituzione, ed in particolare:

- dall’art. 2, che dispone la Repubblica custode e garante dei diritti inviolabili dell’uomo;

- dall’art. 13 comma 1, che pone la libertà personale fra questi diritti inviolabili;

- dall’art. 27, che professa la presunzione di non colpevolezza sino alla condanna definitiva;

- dall’art. 13 comma 5, che prevede la carcerazione preventiva entro limiti massimi previsti per legge.

Egli ci mostra, quindi, nello scorrere temporale dei provvedimenti di legge che si sono susseguiti, l’oscillare del legislatore fra norme volte a tutelare il diritto alla libertà personale e norme volte a tutelare il diritto alla sicurezza, diritti costituzionali che possono manifestarsi in contrapposizione. Parte dal codice Rocco, tutto dalla prima parte, e poi passa alla legge del 1984, che è intervenuta anche nel lessico trasformando la cosiddetta “carcerazione preventiva” in “custodia cautelare”, al codice di procedura penale del 1989, che ha reso necessaria la “gravità” degli indizi per l’emissione di un ordine di cattura, alla normativa post “Mani pulite” con l’obiettivo di evitare abusi di questo strumento, sino al recente proliferare di “pacchetti di sicurezza” che hanno nuovamente esteso la sua possibilità di utilizzo.

Oggi la custodia cautelare deve essere opportunamente motivata (il pericolo di inquinamento delle prove, il pericolo di fuga dell’imputato, il pericolo che l’imputato possa commettere ulteriori delitti). Inoltre le misure cautelari devono essere richieste da P.M. al giudice; possono essere adottate solamente nei casi di gravità del reato previsti dalla legge; richiedono un interrogatorio dell’imputato con l’assistenza del proprio legale; possono non consistere nella reclusione, ma anche in misure alternative che raggiungono l’obiettivo voluto senza comprimere senza ragione il diritto alla libertà dell’imputato prima della sua eventuale condanna in via definitiva.

Ampio spazio anche per i numeri sull’argomento, di cui si riporta quello che maggiormente colpisce nel paragone con gli altri Paesi europei: al 1° settembre 2007 la percentuale europea dei detenuti non condannati in via definitiva era pari al 25,6%, mentre quella italiana era pari al 61,7 %.

Se l’ampia parte descrittiva del fenomeno è chiara ed esaustiva, non lo stesso si può dire sulle conclusioni. Al cittadino pare evidente che si debba ricercare la via che porti a contemperare il diritto alla libertà personale ed il diritto alla sicurezza, come peraltro già accade negli altri Paesi europei. Vi è il problema del contenimento in limiti ridotti dei processi, ma anche quello della limitazione dei poteri della Magistratura Inquirente e del contemporaneo allargamento di quelli della Magistratura Giudicante.

Nulla quaestio sul primo punto: meno tempo è richiesto per giungere alla sentenza definitiva e minore sarà il ricorso alla custodia cautelare. Ma a questo si dovrebbe aggiungere qualcosa di simile a quello che già accade nei Paesi di common law : l’iniziativa per l’applicazione della misura cautelare è presa esclusivamente dal giudice all’interno del dibattimento, la cui prima udienza in Inghilterra deve svolgersi entro ventitré giorni dall’eventuale arresto dell’imputato da parte della Polizia. Inutile dire che tutto questo comporterebbe una vera e propria “rivoluzione copernicana” nel modo in cui la Magistratura interpreta oggi il suo ruolo ; ma le discrasie del nostro sistema giudiziario sono tali che è proprio di una “rivoluzione copernicana” di cui il Paese ha bisogno nella riforma della Giustizia, e non di “pannicelli caldi”.

Si spera di trovare qualcosa del genere nella riforma governativa sulla Giustizia, la cui ritardata uscita ricorda da vicino quella della recentissima sestina vincente al SuperEnalotto, con relativa vincita plurimilionaria.

Commenti all'articolo

  • Di illupodeicieli (---.---.---.118) 2 novembre 2010 19:03

    Se pensassero anche a quelli come me, ai falliti, che sono tra imprese e persone fisiche diverse centinaia di persone...Ma si chiede troppo, meglio lasciarci nel girone dei dannati, dei marchiati a vita, senza più nessun diritto. Del resto,anche per le leggi, dobbiamo prendere esempio dagli altri, e guardare all’Europa.Prodi diceva ,quando doveva e voleva farci digerire leggi e proovvedimenti di economia, che "è l’Europa che ce lo chiede" : ebbene la seconda opportunità e gli aiuti a chi deve e vuole reinserirsi dopo un fallimento, c’è altrove, ma non in Italia. E’ chiaro che ai più fa maggiore impressione il delitto di mafia, il giudice minacciato, ma nessuno pensa alle tragedie vissute da chi ,per colpa di un fallimento ha perduto il lavoro e ,ovviamente non ha nessun diritto a cassa integrazione o aiuti vari. Fa notizia e solo per qualche giorno se per caso si suicida, se disperato compie una rapina ma, alla fine dà più fastidio che altro la sua presenza e il voler richiamare l’attenzione. Meglio quindi dedicarsi a riformare la giustizia, ma solo quella che interessa i media e fa aumentare i voti se ci saranno elezioni politiche.Noi, falliti o protestati possiamo crepare.

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