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Alla ricerca di Adriano Olivetti

Il modello economico vincente in questo periodo di crisi è quello delle multinazionali che offrono prodotti low cost e il cui sistema interno riversa i costi della competitività sui dipendenti. Viste le percentuali di disoccupazione sembra essere l'unica via per andare avanti, attraversare questo periodo, stringere la cinghia e restare nel mercato (del lavoro). E' un modello giusto e sostenibile?Non bisogna andare troppo lontano nel passato per riconoscere l'esistenza di modelli di crescita alternativi egualmente legittimi, efficaci e possibili. Bisogna solo avere il coraggio di cambiare.

Il 14 agosto 2014 il Resto del Carlino è uscito in edicola con il seguente titolo di prima pagina: “Ryan Air snobbata dai giovani disoccupati”, perché solo 20 persone si sono presentate all’annuncio di colloqui per l’assunzione di stewart ed hostess. Intervistati, due docenti dell’università di Bologna hanno argomentato che questo dimostra che per i giovani non c’è una vera urgenza di trovare un lavoro, loro preferiscono andare al mare dopo un anno di ricerca di impiego e, in fondo, il sostegno familiare gli sta bene. Insomma, il tanto alla moda “sono tutti bamboccioni”.
 
Di fronte alla versione dei fatti riportata dal giornale diventa arduo controbattere, non c’è nulla a difesa del disoccupato. D’altronde un articolo giornalistico deve presentare la realtà e non fare retorica. Per avere una visione completa della realtà però vanno aggiunti altri elementi non presenti nell’articolo: è un fatto che la selezione prevede un tirocinio obbligatorio a carico del candidato le cui spese ammontano a circa 3000 euro e di cui solo una parte viene rimborsata se non si viene assunti. In più, il diploma di idoneità non è spendibile presso altre compagnie aeree. L’assunzione comporta l’offerta di un contratto di alcuni anni con uno stipendio di 1200 euro, senza contributi, da cui vanno sottratti il costo della divisa e del “vitto” in aereo ed una tassa aggiuntiva per i primi 12 mesi. 
 
Sul web la discussione è sfociata in un caldo dibattito. Come nella maggior parte delle discussioni in rete, difficilmente si trovano posizioni moderate e gli interventi si presentano radicali e carichi di sentimenti e risentimenti. Da un lato c’è chi difende a spada tratta l’azienda per quello che rappresenta: un’opportunità di lavoro in tempo di crisi, di crescita professionale in un mondo globalizzato, di dinamicità e flessibilità rispetto alla vischiosità e burocratismo del panorama italiano. Poi ci sono i nostalgici degli anni 60 che sfogano una rabbia furibonda contro le istituzioni e il loro lassismo contemporaneo che ha permesso l’erosione di quel nucleo di diritti sociali conquistato con tanta fatica.
 
Per i primi l’imprenditore è il salvatore i cui grandi progetti e la “missione” salvifica sono ostacolati dai fannulloni alla ricerca di un’azienda disposta a concedere loro un assegno assistenziale a vita. I secondi demonizzano le multinazionali ed il sistema neo-liberista che si espande come una ragnatela velenosa di cui gli imprenditori sono gli artefici e gli unici a trarne beneficio.
 
Sarebbe riduttivo e semplicistico dire che la verità sta nel mezzo, piuttosto si possono raccogliere elementi e tendenze che certamente caratterizzano la complessità del mondo del lavoro attuale. E’ vero che vi è stata negli ultimi decenni una perdita di quei diritti che, accompagnati ad una crescita economica complessiva, garantivano prospettive di sicurezza e stabilità ai lavoratori; è da riconoscere anche che le multinazionali oggi si presentano come la principale soluzione alle problematiche di allocazione del lavoro con cui molti paesi si trovano a dover fare i conti, e che la flessibilità permette un turn-over positivo per le aziende e maggiori opportunità di impiego. Tuttavia la questione è più ampia e non può essere risolta puramente in termini economici. 
 
Coma ha detto il prof. Carlo Galli, "tutto ciò che ha a che fare con l’essere umano in quanto individuo, si sporca, diventa sfumato, complesso, imprevedibile, in quanto l’uomo non può essere ridotto ad un numero, contabilizzato e intrappolato in una formula”. Ecco perché l’homo economicus non risponde quasi mai alla realtà, perché le teorie economiche difficilmente vengono attese e perché la logica di profitto seguita oggi dalle multinazionali non può che risultare riduttiva e dannosa allo sviluppo dell’individuo ed alla crescita umana collettiva. Non si vuole demonizzare, accusare o giudicare la Ryan Air e le altre aziende ma discutere la logica ed il modello di sviluppo seguito, che sta alla base della loro crescita.
 
Dalla nascita fino alla prima guerra mondiale, lo Stato italiano è stato attraversato da furiose ondate di scioperi, dall’azione delle masse di lavoratori che portavano alla ribalta la grande questione agraria e dal coraggio e la volontà dei contadini di combattere per quei diritti che li avrebbero trasformati da servi del padrone a cittadini dello Stato. Anche allora, come oggi, la situazione appariva confusa e aggrovigliata e non era chiara la via da seguire, sotto la pressione di interessi precostituiti da un lato ed il timore dell’ignoto, dell’ imprevedibilità che si accompagna ad ogni progetto progressista, dall’altro.
 
Inoltre, le argomentazioni a favore dei padroni non erano scontate: per quale motivo si doveva chiedere una riduzione dell’orario di lavoro ed un aumento del salario? Il padrone, che appunto possedeva tutto, concedeva ai poveri, analfabeti contadini di poter lavorare la sua terra e gli forniva anche un salario, vitto e alloggio. Che cosa si può volere di più? Scioperare voleva dire essere ingrati e fannulloni, non dimostrare riconoscenza a chi forniva tutti i mezzi per vivere: un lavoro cibo e tetto. 
 
Considerando la complessità della realtà che caratterizza il mondo contemporaneo, il contesto politico più confuso, la società multi sfaccettata e pluralista, il sistema economico esteso e articolato e tenendo conto di tutte le attenzioni e le cautele che richiede un parallelismo storico, non si può negare che la logica utilizzata per fare pressione ai lavoratori, oggi sia la stessa. Chi non accetta un posto di lavoro in tempo di crisi è un fannullone e un peso per la società. La qualità del lavoro si misura in termini di profitto. Come il bravo contadino, se lavorava molto e aveva un po’ di fortuna, poteva diventare fattore del padrone e comandare e guadagnare sugli altri, così oggi la meta, in termini economici, viene raggiunta a scapito degli altri. Una competizione stimolata da premi e gare che ricordano molto gli esperimenti di condizionamento operante sui topolini fatti dagli studiosi di psicologia comportamentale.
 
Ripeto, non si tratta di demonizzare gli imprenditori in nome di visioni utopistiche ma di capire che la “qualità” del lavoro con la Q maiuscola non può essere misurata solo in termini di denaro ed il profitto, non può avvenire a mezzo di giochi psicologici frustanti e deleteri. Vanno presi in considerazioni altri fattori che già un grande imprenditore italiano come Olivetti aveva inglobato nella sua visione umana dell’azienda : “Una comunità ne troppo grande ne troppo piccola, concreta, territorialmente definita, dotata di vasti poteri, che desse a tutte le attività quell’indispensabile coordinamento, quell’efficienza, quel rispetto della personalità umana, della cultura e dell’arte che il destino aveva realizzato in una parte del territorio stesso, in una singola industria” .
 
 

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