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Alla deriva: la politica dell’impolitico

L’attuale deriva della politica italiana e dell’Italia tutta, sempre più vittima di una continua involuzione e decadimento, sembra figlia legittima del processo di acculturazione di pasoliniana memoria.

Come risultato l’ulteriore distanza tra due mondi più che mai alieni: la politica (ormai piccola e meschina) e il vivere quotidiano delle persone comuni (quella che si definisce, non a caso, “società civile”, come se dall’altra parte regnasse e vigesse l’inciviltà).

Si è perso (la classe dirigente ha totalmente smarrito) il senso e la percezione della realtà, la ragione di sé, del suo mandato e dei problemi reali dei cittadini.

Da troppo tempo si manifesta disattenzione, che a tratti sconfina nel disprezzo, verso tutto ciò che non origina da cooptazione, nepotismo e servilismo, affarismo e mercificazione, in un sistema sempre più oligarchico, impenetrabile, chiuso (e, pertanto, ostile rispetto al mondo circostante), sino a cancellare qualsiasi residuo di democrazia esterna e interna (che si traduce, alla fin fine, in negazione della democrazia tout-court).

Tante, troppe sarebbero le parole da “spendere”, forse inutilmente, in un interminabile j’accuse!

Chiamatelo pure qualunquismo. Chiamatela antipolitica. Chiamatela come volete e come vi pare e piace.

Ma proviamo a dare una risposta ad una sola domanda: “L’ostilità e il senso di distacco da chi o da cosa deriva, se non da questa distanza tra paese reale e politica aliena?”

Il crescente astensionismo è o non è segnale di questo divario e questa disaffezione che divengono incolmabili?

Sempre più spesso, il confronto politico si traduce in scontro aprioristico, che nega qualsiasi possibilità di dibattito serio, anche acceso e animato, per ridicolizzare-radicalizzare la disputa con l’avversario interno o esterno (vissuto come nemico da abbattere, sovente non prima d’averlo opportunamente dileggiato, se non vilipeso).

Lo spartiacque destra-sinistra (antistorico rispetto all’evoluzione sociale) è rimasto avvolto dal e nel furore ideologico, anziché concretarsi nella diversità di soluzioni proposte a fronte di questioni epocali (immigrazione, bioetica, diritti civili, assetto istituzionale, per citare solo alcuni possibili esempi); cioè su temi e problemi che, non da oggi, travalicano la discriminante ideologica e dovrebbero coinvolgerci tutti.

Chi esprime perplessità e posizioni non conformi è necessariamente collocato sul fronte opposto o viene tacciato di anti-italianità.

Destra e sinistra (o per usare altri termini ormai desueti, fascista/comunista) assumono la veste (logora) di epiteti e di aggettivazione dispregiativa, dell’una contro l’altra parte o nello stesso contesto politico d’appartenenza, per (s)qualificare i non-allineati (il libero pensiero, la criticità, il sano dubbio e la non omologazione).

Seguire tutti questi rinati istinti primordiali non giova a nessuno: non a questo Paese, non alla nobiltà della Destra e della Sinistra (storiche), non alla Politica, non alla Convivenza Civile e Democratica, ancor meno alla Cultura.

Alimentare, sempre e comunque, a ranghi serrati, il tribuno della plebe di turno o il leader sedicente carismatico (in un’era priva di carisma, in un’epoca di nani dove quello un tantino più alto figura ingigantito), è una forma di populismo deteriore, che mortifica e porta i cervelli all’ammasso.

Significa legare il proprio destino alle fortune e miserie di un singolo, che dietro sé – assai spesso – può lasciare solo macerie.

E’ tempo di entrare nell’era della post-mediocrità.

Verrà il tempo di andare “avanti”, dar vita ad una sorta di Kadima italiana, non necessariamente in forma elettorale, un trasversalismo e un’unità di nobili ragioni e intenti, sulle grandi questioni che coinvolgono l’Italia, di tutte le forze parlamentari, che sappiano interpretare il senso di malessere, di mancata appartenenza di molti all’uno e all’altro schieramento e tradurla in pensieri e azioni (pro)positive e di crescita per una società non più vittima dell’involuzione e dell’oscurantismo.

E’ sempre più urgente e necessario colmare questa anomala distanza tra politica e partecipazione. Se vogliamo che la politica e la democrazia (cor)rispondano alla partecipazione.

Certo è che, ora come ora, questo divario pare non interessare tutti coloro che riempiono il vuoto con l’alterazione del consenso. Poco importa se il corpo elettorale si restringe.

Cito, come esempio, l’affluenza alle urne alle ultime elezioni provinciali di Cagliari: al ballottaggio ha votato il 25% degli aventi diritto. Il candidato del centro-sinistra ha vinto col 52% dei voti. Traduzione: quel 52% equivale al 13% di consensi, se depurato dalle alterazioni a vocazione maggioritaria. Coi numeri e coi sondaggi si può, poi, giocare quanto si vuole, ma è questa la fotografia più realistica, denudata da qualsiasi enfatizzazione propagandistica.

Occorre far esplodere questo status-quo, ancor prima che imploda, perché troppo carico e denso di contraddizioni e di distanze incolmabili.

Distinguersi, definirsi da oggi “altro”, per non correre il rischio di risultare poi indistinguibili e per sottrarsi alla politica del caos.

L’aspetto paradossale, in questo Paese, resta quello di un tycoon della televisione, un antennaro, un mediocre parvenue, arrivato alla Presidenza del Consiglio, grazie all’enfasi mediatica e propagandistica ottimamente gestita da chi ricopre contemporaneamente ruoli inconciliabili, che in qualsiasi altra democrazia occidentale avrebbero mantenuto fermo il criterio di ineleggibilità.

Piaccia o non piaccia questa è anomalia tutta e solo italiana.

E’, altresì, opera dell’assurdo che un partito regionalista (altro che federalista!) abbia ricevuto consensi a causa del vuoto politico e di un malessere cavalcato in questi ultimi 16 anni.

Non si continui, pertanto, a invocare il rispetto per l’esito elettorale: ricordo, qualora ce ne fosse bisogno, che, ancora una volta, il primo a venir meno ad un simile ossequio è stato lo stesso Signor B (quando gridava ai brogli, chiedeva di ricontare i voti e non voleva “scollarsi” da Palazzo Chigi, preda – anche in quella circostanza - di un delirio e di un’ossessione incontrollati).

Parliamo della stessa persona che oggi inveisce, in maniera scomposta, davanti all’istanza della Bresso o grida al tradimento dei ribaltoni (quando è lui il ribaltabile) e ai complotti, dopo esser stato attore di analoghi tentativi verso l’ultimo governo Prodi. Anche in quella circostanza senza lesinare "bastonature" mediatiche ai senatori a vita.

Una ossessione continua che, tra le tante storture, ha generato anche l’impossibilità di un dibattito che risulti un minimo costruttivo.

Ormai è chiaro che la contesa travalica destra e sinistra.

L’ossessione non è più di una sinistra “malata” che vede, da sveglia o in sogno, Signor B dappertutto.

La contrapposizione è tra chi, sempre e comunque, amplifica “la voce del padrone” e chi vorrebbe tornare ad una normale dialettica politico-istituzionale, in un paese autenticamente democratico.

La sensazione è che sia giunta la fine di un’epoca, il tramonto di un’epopea, il crepuscolo di un’epica, tutta costruita su un (pre)potere che esalta sé stesso.

D’altro canto anche l’adesione ad un potere “monolitico” non è destinata a reggere in eterno, ancor meno se non più ispirato da valori liberali, democratici e pluralistici, ma solo dominato da vassallaggio, cooptazione, nepotismo e familismo (per non usare l’aggettivazione più appropriata: servilismo).

L’incapacità di gestione politica in tutti questi anni, eretta a sistema, persino nei grandi eventi e profittando delle disgrazie altrui, non può pretendere impunità.

Specie laddove traspare che si siano “mangiati” tutto l’”abbrancabile” e che il tentativo sia stato quello di legittimare l’illecito.

Oltre e al di là dell’illecito, che spetta a chi di dovere perseguire, non è pensabile che continui a vigere e sopravvivere un criterio di irresponsabilità politica nella scelta degli uomini sbagliati.

Il primus inter pares non può dichiararsi estraneo a responsabilità politiche che riguardano, sempre a titolo d’esempio, la nomina di ministri, sottosegretari e coordinatori di partito.

La contesa, dunque, è tra chi ha rispetto per le regole, la democrazia, gli equilibri istituzionali e chi, quotidianamente, gestisce l’impero con atti d’imperio legislativo (pro domo sua e i suoi famigli).

Arrivati a questo punto e dai segnali provenienti da diversi ambiti, pare sia il paese reale a non reggere più.

L’auspicio è quello di veder (ri)sorgere una destra e una sinistra laiche, repubblicane, pragmatiche, relativiste in tema di valori, politicamente e reciprocamente corrette. Se sarà questo lo spartiacque destinato a permanere.

Ecco qual è la speranza: vivere, finalmente, in un paese normale, normalizzato e pacificato.

L’anomalia è così grande da esser diventata sin troppo evidente: quel che i francesi avevano intuito per tempo rispetto a Bernard Tapie, quel che avevano scongiurato gli statunitensi rispetto all’ascesa di Ross Perot, quel che gli spagnoli non hanno consentito a Jesus Gil, quel che in Italia, seppur con ritardo, non è stato perdonato a Craxi…. ho sentore (non certezza) che capiterà, ancora una volta con notevole ritardo, a questo Signor B.

Senza l’ausilio di ipotetici complotti.

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