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Tutte le illusioni del mito della meritocrazia

La presenza della retorica della meritocrazia si estende in ogni segmento del vivere individuale e collettivo finendo per condizionare il sistema di valori su cui si regge l’intera dimensione sociale.

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La neutralizzazione dell’ambito sociale, coerentemente con quanto prevedeva la celebre frase di Margaret Thatcher secondo cui “la società non esiste“, opera a favore di un meccanismo che tende ad isolare il singolo ed eliminare qualsiasi residuo di coscienza e appartenenza sociale. La presenza di una massa di individui isolati e anonimi necessita tuttavia della presenza di un ulteriore elemento: la competizione.

La concorrenza fine a se stessa non rappresenta però il coronamento del processo che ha condotto alla situazione attuale. Al contrario, essa necessita di un elemento ulteriore. Il fatto, cioè, che la competizione sia governata da una precisa logica finalizzata a regolare i suoi ritmi e le sue dinamiche: la meritocrazia.

Questa logica rappresenta la principale linea di demarcazione tra chi è considerabile come integrato e al passo con i ritmi richiesti e chi, in assenza di certi prerequisiti, viene relegato nella più ampia massa di esclusi.

Sono molteplici gli elementi che contraddistinguono la nostra epoca rispetto a quelle precedenti.

La precarietà lavorativa rappresenta la fonte capace di generare incertezza e rassegnazione, elementi che delineano un sistema che tende a relegare gli strati della popolazione più giovani ad un futuro di instabilità.

La minaccia del declassamento di quella che in passato veniva individuata sotto l’etichetta di classe media è ormai un pericolo concreto che spaventa quote rilevanti della popolazione. Queste ultime, alla luce dell’impossibilità di vivere secondo le aspettative e le esigenze della propria classe di appartenenza, vivono nel mezzo della polarizzazione tra impoverimento e sopravvivenza.

Alla luce di una società che appare radicalmente differente rispetto alle forme che le erano proprie fino a pochi decenni prima, è visibile la pluralità di fratture che risiedono all’interno del nostro sistema sociale. Fratture che, in particolare, emergono sia sul versante dei rapporti di forza che si palesano in termini di diseguaglianze economiche che separano le diverse classi sociali, sia in ambito di divari in termini generazionali. Su quest’ultimo punto, sono numerose le tesi che intendono evidenziare la differenza che intercorre tra le giovani generazioni e quelle più anziane. A tale proposito, la retorica meritocratica può essere considerata come un mezzo per dissimulare il fallimento politico consistente nella condanna di intere generazioni ad un futuro ineguale a quello dei propri padri

La meritocrazia si presenta quindi come uno strato del sistema della cultura dominante avente il fine di legittimare lo sfruttamento e le diseguaglianze sotto la falsariga dei successi individuali. Tuttavia, all’interno di una simile narrazione è possibile scorgere delle contraddizioni.

Ai fini della comprensione dei lineamenti generali del concetto in questione è dunque utile sottoporre alcune domande al professor Salvatore Cingari, autore del libro “La Meritocrazia” (Ediesse, 2020) e professore ordinario di Storia delle dottrine politiche presso l’Università per Stranieri di Perugia.

La retorica meritocratica attraversa ogni ambito della vita sociale: dalle scuole alle università, dal lavoro al tempo libero. La pervasività di una simile narrazione concorre alla formazione di un individuo capace di interiorizzare nel corso della sua crescita parametri di giudizio in linea con un’interpretazione individualistica di ogni sua attività, dei suoi meriti e dei suoi demeriti. L’apparato culturale neoliberista esige che il concetto di responsabilità venga declinato in senso individualista.

Viene dunque da pensare che l’esistenza di una narrazione che si orienta nella direzione di una costante responsabilizzazione del singolo sia funzionale al mantenimento di precisi equilibri. In che modo il sistema di valori che ruota attorno alla meritocrazia è necessario al funzionamento delle nostre società? Inoltre, il perenne pericolo del fallimento e del declassamento in che modo può provocare danni sul tessuto sociale?

“Come di recente ha sottolineato Nancy Fraser (Il vecchio muore, il nuovo non può nascere nascere, ombre corte, 2021, ed. orig. 2019), il passaggio dall’idea di eguaglianza a quella di meritocrazia ha segnato la conversione delle culture politiche di sinistra al neo-liberalismo progressista e cioé il modo con cui tali soggetti, a cavallo fra anni novanta e svolta del millennio, han cercato di recuperare terreno elettorale rispetto al neo-liberismo conservatore. Il neo-liberismo veniva così declinato assieme ai diritti umani, ma sganciando questi ultimi dai temi dello sfruttamento di classe, di modo che non più si trattava di emancipare la totalità della popolazione bensi di dare anche ai gruppi più svantaggiati (le donne, le minoranze etniche, i ceti proletari) la possibilità dell’inclusione ma solo per i migliori. In tal modo veniva giustificato il progressivo disinvestimento di risorse nel benessere pubblico, argomentando che esse dovevano per giustizia andare a chi se lo merita per talento e lavoro.

Per quanto riguarda il declassamento son stati fatti studi specifici che mostrano come l’ansia determinata dalle richieste di prestazione e dalla selettività nell’accesso al lavoro e al reddito comporta danni sociali ed economici ben superiori ai costi presuntamente attribuiti alla spesa pubblica. L’angoscia, l’ansia, la paura, determinano infatti malattie psichiche e conflittualità che non giovano alla produttività, se anche quest’ultimo fosse un valore e neppure alla coesione sociale. Inoltre la precarietà riguardo ai beni primari provoca una regressione verso i valori autoritari: intolleranza, maschilismo, omofobia, xenofobia. Anche così si spiega l’evoluzione sovranista e persino fascista dei sistemi neo-liberali”.

Nel corso del suo sviluppo, il concetto di meritocrazia ha subito dei mutamenti. È possibile individuare delle fasi principali che hanno consentito l’applicazione di diverse chiavi di lettura del concetto?

“Se un giovane nato e cresciuto negli anni Novanta del secolo scorso leggesse la prefazione dell’edizione italiana di The rise of meritocracy del 1962, uscita quattro anni dopo l’originale inglese a firma di Michael Young, rimarrebbe sorpreso e spiazzato. Vedrebbe infatti che il sociologo olivettiano Cesare Mannucci definiva la “meritocrazia il contrario” della democrazia. Young infatti, consacrando il lemma nel linguaggio politico occidentale, aveva raffigurato la meritocrazia, in un romanzo sociologico distopico, come una società in cui attraverso test di intelligenza la popolazione è divisa fra un élite di dirigenti e una massa di diretti, dediti ai lavori manuali e domestici, inizialmente rassegnati alla loro minorità in quanto certificata dalla scienza psicometrica. Il racconto finisce con un’insurrezione di una coalizione fra le donne dell’èlite e i lavoratori assoggettati, all’insegna della valorizzazione dei meriti differenti da quelli produttivisti, come ad esempio le occupazioni legate ai lavori di cura. Young infatti contestava il sistema scolastico inglese basato su un test di intelligenza ad undici anni, che, a prescindere dal contesto sociale di partenza, decideva i destini culturali ed esistenziali dei soggetti; l’Education act del 1944 era stato sostenuto anche dai laburisti in quanto visto come possibilità di mettere alla pari di fronte ad un esame tutti i ragazzi a prescindere dall’estrazione sociale. L’altro obiettivo critico era il produttivismo competitivo e dirigista della tarda età fordista a cui anche i laburisti, da cui Young era fuoriuscito da sinistra, avevano ceduto. L’uguaglianza di opportunità, secondo Young, in realtà finiva per riprodurre la diseguaglianza.

E del resto durante il ciclo di contestazione fra il 68 e il 77, la meritocrazia è stata un bersaglio polemico topico, sia nell’ambito scolastico formativo, sia in quello del lavoro. Nel primo veniva contestata l’idea di una selettività che non tenesse conto degli ambienti sociali di provenienza e che – come insegnava Bourdieu – finiva per riprodurre le gerarchie sociali esistenti anche nei contesti in cui vigeva la scuola unica; nel secondo ambito, invece, si trattava di rifiutare un’idea di retribuzione e di trattamento dei lavoratori sulla base di criteri autoritariamente decisi dai datori di lavoro. Ma anche nel Dizionario di politica Bobbio-Matteucci (dunque un testo di matrice non certo sessantottina e anti-liberale) del 1976 (UTET), il termine meritocrazia veniva ricostruito da Lorenzo Fischer rilevandone la venatura tendenzialmente negativa, che finiva per diventare una legittimazione della diseguaglianza rispetto a cui come antidoti valevano la teoria dei bisogni marxiana e appunto le tesi di Bourdieu sulla riproduzione sociale. Ma la cosa eclatante è che ancora negli inoltrati anni Novanta lo scenario, almeno in Europa, non era cambiato: Romano Prodi, nell’introdurre la traduzione della Terza via di Anthony Giddens, scriveva nel 1999 che il Welfare state andava riformato ma senza finire nella meritocrazia, essendo questa un’idea neo-liberista. Lo stesso Giddens, in quel libro, era appunto ancora perplesso su quella prospettiva, che avrebbe invece abbracciato in modo deciso di lì a poco, passato il millennio.

Ma allora come è successo che il termine oggi sia considerato positivo nel dibattito politico e mediatico e nel senso comune diffuso? Il fatto è che negli Stati Uniti, già dalla sua prima ricezione, il termine inizia anche ad essere utilizzato in senso positivo, nel quadro dei primi segni di quel passaggio ad un’economia postindustriale che privilegia le competenze e ritiene necessario dinamicizzare l’offerta piuttosto che, keynesianamente, la domanda, investendo sull’impresa e sulle eccellenze. E’ in particolare il sociologo Daniel Bell che in un impegnato saggio del 1972, Meritocracy and equality, utilizza il termine in chiave positiva, criticando l’egualitarismo che si andava affermando nel paese, con la great society johnsoniana, con gli atti affermativi e con tutto un movimento di rivendicazione sociale e razziale che sembrava come incarnarsi in Una teoria della giustizia di John Rawls. Quest’ultimo aveva sostenuto che le uniche diseguaglianze ammissibili erano quelle che apportavano un tale beneficio alla società da costituire comunque un progresso di condizione per gli ultimi e che il merito andava riconosciuto come servizio alla comunità e non come motivo per acquisire maggiore potere o privilegi. Bell invece considerava tutte queste tendenze come distruttive del dna del liberalismo americano che a suo avviso era caratterizzato dalla promozione dell’uguaglianza di opportunità e non di risultati. La meritocrazia veniva quindi qui non opposta al favoritismo o alle procedure di tipo ascrittivo per assegnare il potere (come essa emergeva nella tradizione della rivoluzione americana e francese sebbene in assenza del lemma), bensì all’egualitarismo degli anni sessanta.

In Europa quest’ultima accezione, come si diceva sopra, tarda ad affermarsi, e bisogna aspettare la Terza via di Tony Blair che all’inizio del nuovo millennio la inserisce nell’immaginario delle stesse famiglie politiche di centrosinistra. Tramontate le idee di lotta di classe e di sfruttamento capitalistico, è messa in crisi anche quella di redistribuzione, legata al pregiudizio dell’inefficienza di uno stato che fornisce risorse a chi non può fecondarle imprenditorialmente a vantaggio di tutta la società. La giustizia sociale viene ora vista soltanto nei termini di una gara di cui vengono garantite le regole di un gioco competitivo a cui tutti devono poter partecipare. E’, questa, la stessa logica dell’ordoliberismo, l’ideologia di riferimento dell’Unione europea, che va a confliggere con i principi redistributivi del costituzionalismo democratico. La meritocrazia sembrava inoltre rompere definitivamente con il mondo patriarcale e valorizzare le differenze come individuali talenti, con ciò rimuovendo proprio l’insegnamento di Young, che aveva spiegato come in realtà il dominio del merito è omologante in quanto valorizza solo determinati talenti: cioè quelli richiesti dal potere dominante, escludendo le soggettività divergenti e imponendo un modello antropologico. Oggi il modello antropologico imposto meritocraticamente è evidentemente quello aziendalistico, basato su flessibilità, adattabilità e competenze tecnologico-economiche. Il new public management, che colonizza tutte le istituzioni pubbliche, tende ora a riprodurre anche nella scuola, negli ospedali, nelle università, nelle forze dell’ordine, un clima “concorrenziale”, in cui i soggetti sono sottoposti a processi di qualità attraverso una continua valutazione volta a misurarne la performatività e accountability, sulla base di parametri modellati sulle esigenze produttivistiche e di profitto.

Nel nuovo millennio la meritocrazia è diventata un mantra del discorso pubblico europeo, una sorta di teodicea del turbocapitalismo. Ma è facile registrare come ogni discorso in favore della meritocrazia non sia stato pressoché mai accompagnato dall’indicazione degli strumenti per rimuovere gli ostacoli affinché vi siano pari opportunità fra i soggetti; né tanto meno veniva precisato come, una volta espletata la gara (seppure iniziata da blocchi di partenza a pari livello per tutti), si pensava di tutelare i “perdenti” e soddisfare i loro bisogni e la loro aspirazione di realizzazione umana. In realtà l’enfasi sul merito è legata all’idea neo-liberale secondo cui investire sui più ricchi premia tutta la società con il trikle down. In quest’ordine del discorso i dispositivi di redistribuzione sono da limitare in quanto dissipatori di risorse che vengono tolte a chi può investire in direzione di chi non è in grado di farlo. Negli Stati Uniti, il famigerato The bell curve (1994), in cui si afferma che è inutile sostenere economicamente determinate etnie dato che esse poi non restituiranno mai alla società l’aiuto ottenuto, radicalizza questo modo di vedere. Su un piano più compatibile con visioni illuminato-progressiste la tematica meritocratica legittima le politiche pubbliche a privilegiare la promozione delle esigenze delle élite, viste come eccellenze capaci di migliorare l’intera società, peggiorando in realtà le condizioni economiche e sociali di una massa di persone, magari senza talento secondo il modello dominante. Negli stessi Stati Uniti il sistema di testing per accedere ai college, che in origine doveva – come l’eleven plus inglese – mettere tutti sullo stesso livello a prescindere dall’estrazione di classe ed etnica, ha finito per rinforzare sempre di più l’élite tradizionale bianca protestante, integrata con eccellenze di diversa provenienza socio-culturale, distruggendo letteralmente il ceto medio, base tradizionale della democrazia americana.

Ritiene che il mito della meritocrazia sia riscontrabile nelle sole democrazie liberali occidentali o è possibile riscontrare analoghe narrazioni in altri contesti politici?

“Sicuramente una delle culture più pervase dell’idea meritocratica è quella confuciana, che tende ad un’armonia gerarchica. La Cina contemporanea è infatti pervasa di confucianesimo ma allo stesso modo lo è una smart cities come Singapore, in cui la competitività meritocratico- individualistica del mercato è unita ad un’idea gerarchica e armonica di società. Ciè è istruttivo perché mostra come l’idea meritocratica, fra anni ottanta e novanta proposta come antidoto differenzialista e differenziante contro il grigiore fordista, in realtà mira ad un’omologoziane sulla base di un modello, che riproduce gerarchie e poi ordinata immobilità sociale sulla base della riproduzione del privilegio.

 Il politologo americano Daniel Bell (omonimo di quello citato nella risposta precedente) in The china model (2015) ha proposto di abbandonare la democrazia liberale e il suo suffragio universale per abbracciare il sistema del partito comunista cinese basato su elementi di democrazia sul piano locale e invece sulla selezione meritocratica delle élite dirigenti sul piano nazionale, sulla base della loro competenza e performance. Peccato che sia in epoca imperiale che comunista-capitalista in ultima anlisi le élite selezionate provengono per lo più dai ceti già dirigenti.

Simone Pieranni in Red Mirror (2020)ha parlato dell’esperimento distopico in atto in Cina per cui i cittadini vengono dotati di una patente a punti che migliora o peggiora di livello a seconda del disciplinamento sociale del soggetto, il quale potrà accedere a migliori servizi solo se sufficientemente premiato per il proprio comportamente: molto vicini all’allucinazione distopica di un episodio della terza stagione della serie tv Black mirror, intitolato Caduta libera”.

Tutte le interviste dell’Osservatorio

 

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