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Transition, movimento culturale per le città in "transizione"

Credo che a tutti noi sia capitato almeno una volta di sentir parlare delle “Città in Transizione”.

Transition è un movimento culturale nato in Inghilterra, quasi per caso nel 2003, quando un insegnante di una scuola di Kindsale, Rob Hopkins, ed i suoi studenti crearono il Kinsale Energy Descent Plan: un progetto strategico che indicava come la piccola città avrebbe dovuto riorganizzare la propria esistenza in un mondo in cui il petrolio non fosse stato più economico e ampiamente disponibile.

Voleva essere un’esercitazione scolastica, ma quasi subito ci si rese conto del potenziale rivoluzionario di quella iniziativa. Motto delle “Città in Transizione” è “Pensare globalmente, agire localmente”, l’esempio più famoso nel genere è della cittadina di Totnes, in Gran Bretagna, questo villaggio di 8.500 abitanti nel sud-ovest dell’Inghilterra è stato da subito terreno fertile per le idee della transizione.

Obiettivo del movimento Transition è l’autosufficienza, il metodo da adottare che produzione, distribuzione e consumo (di energia, di acqua e di cibo, principalmente) diventino il più possibile locali, indipendenti da fattori esterni. Ci si pone l’obiettivo di arrivare a questo tramite la filiera corta, gli spacci aziendali locali (quindi la spesa a km zero), l’uso di fonti energetiche rinnovabili, coltivazione di giardini e orti comuni, mobilità sostenibile, moneta locale.

Tramite quest’ultimo obiettivo, una moneta da far girare in una associazione di negozi di vicinato, si incentiva l’acquisto di prodotti manufatti localmente abbattendo quindi l’inquinamento dovuto allo spostamento multichilometrico delle merci, sostenendo di conseguenza le imprese locali ed i posti di lavoro da esse generati. Ma il valore aggiunto della filosofia “transitiva” è il non fermarsi solo al livello economico in senso puro, la forza dell’esempio di Totnes sono lo scambio e la condivisione di cose molto concrete: manodopera inutilizzata, materiali che si accumulano, spazi vuoti in immobili o mezzi di trasporto vengono condivisi con altre imprese che ne hanno bisogno; i possessori di orti-giardini si interscambiano la “forza lavoro” a seconda delle possibilità temporali. Attraverso progetti che puntano al recupero delle abilità perdute ed al racconto delle esperienze si punta a stimolare spontanee relazioni di vicinato e reciprocità sociale. Di primo acchito si potrebbe sostenere che le dimensioni del progetto, ed alcune peculiarità dovute ad esse, potrebbero essere motivo di successo, successo non replicabile a livelli più ampi; fosse anche così, un sistema simile applicato al 90% del territorio direi non sarebbe niente male.

Potrebbe però anche non essere così, aspettiamo ad esempio le risposte di “Transition Town Brixton”, progetto sviluppato in un popoloso e degradato quartiere di Londra. Veniamo, torniamo, ad una esemplificazione del pensiero “transitivo”, pensiero che si ripropone di traghettare una società basata sul consumo illimitato e schiava del petrolio, creatrice di inquinamento, distruzione della biodiversità, iniquità sociale, distruzione del tessuto identitario e comunitario, in un nuovo modello sostenibile indipendente da energie fossili non rinnovabili e caratterizzato da un alto livello di “resilienza”.

Hopkins basa il proprio pensiero sulla “permacultura”, cioè la capacità di un ecosistema, di una specie, di una certa organizzazione vivente o sociale di adattarsi ai cambiamenti, anche traumatici, che provengono dall’esterno senza degenerare, una flessibilità dinamica rispetto alle sollecitazioni indotte; si tratta di un fattore non indifferente alle porte di un probabile prossimo esaurimento delle scorte petrolifere.

La nostra società oggi vive di prodotti che percorrono migliaia di chilometri per raggiungerci, con catene di produzione e distribuzione estremamente lunghe, complesse e delicate che, oltre che inquinare e aumentare il costo di vendita, sono commerciabili solo grazie all’abbondanza di petrolio a basso prezzo che rende semplice avere energia ovunque e spostare enormi quantità di merci da una parte all’altra del pianeta. Si chiudesse il rubinetto del carburante tutto crollerebbe.

Il pensiero “transitivo” mira invece a creare comunità libere dalla dipendenza dal petrolio e fortemente resilienti attraverso la ripianificazione energetica e la rilocalizzazione delle risorse di base della comunità (produzione del cibo, dei beni e dei servizi fondamentali), prevedendo processi governati dal basso e la costruzione di una rete sociale e solidale molto forte tra gli abitanti delle comunità, non disdegnando l’esistenza di altri e più complessi livelli di relazione sussidiaria e di scambio, regionale, nazionale e internazionale.

Torneremo a breve a sviluppare questo tema riguardante le “città di comunità”.

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