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 Home page > Attualità > Società > Risolvere il problema dei rom è risolvere il nostro problema

Risolvere il problema dei rom è risolvere il nostro problema

Ci è arrivato questo testo da Renato Accorinti che, nella sua qualità di Sindaco di Messina ha molto lavorato anche sul tema dei Rom. Gli abbiamo chiesto il permesso di ripubblicarlo e ci siamo permessi di aggiugergli un titolo.

di Renato Accorinti

«…Gli ultimi del mondo, che hanno subìtoumiliazioni, calpestati nella dignità
e nei diritti umani. Nella nostra mentegli zingari
rappresentano, più di ogni altra comunità, paure
e pericoli per noi singole persone,per l’intera collettivitàe per i nostri beni materiali.
I loro errori, i loro difetti, vengono però da noi amplificatie generalizzati, alimentando
i già esistenti pregiudizi che diventano cosìrazzismo… Quell’antica malattia
di considerare gli ALTRI altro da NOI».

Renato Accorinti

 

L’ennesima ondata di intolleranza e razzismo contro i rom, sfociata nelle ultime settimane anche in manifestazioni di vero e proprio “odio razziale” come quella che ha costretto i nomadi destinati al centro di accoglienza di Torre Maura a Roma a scappare e tornare nei campi, ripropone ancora una volta il problema di questa popolazione, «la minoranza più discriminata d’Europa» secondo un rapporto del Pew Research Center del 2014. Non solo perché rom e sinti furono sterminati dai nazifascisti durante la Seconda Guerra Mondiale, ma perchél’ondata di disprezzo nei confronti di queste persone non si è mai placata. Anche in Italia.

Eppure, nel nostro Paese, rom e sinti sono tra 120 e 180 mila, lo 0,2-0,3% della popolazione. è tra le percentuali più basse in Europa, dove vivono tra 10 e 12 milioni di rom. E addirittura metà di questi rom ha la cittadinanza italiana e la maggioranza è stanziale (solo il 3% è propriamente nomade). Sono arrivati in Italia nel corso dei secoli a causa di diverse migrazioni e appartengono a 11 diversi gruppi: le comunità più numerose si trovano nel Lazio, in Lombardia, in Campania e in Calabria dove ci sono persino due insediamenti abitativi monoetnici, a Cosenza e a Gioia Tauro (il famoso ghetto della “Ciambra” ritratto nell’omonimo film del regista italo-americano Jonas Carpignano, vincitore del David di Donatello).

Secondo le stime del 2017, circa 26 mila di loro si trovano in una condizione di emergenza abitativa. Anche questo è il frutto di politiche discriminatorie, che negli anni hanno costretto questi cittadini a vivere nei campi nomadi, in roulotte e container, quando la gran parte di loro in patria aveva una casa “vera” (ad esempio i rom bosniaci e kosovari arrivati in Italia negli anni Novanta a causa della guerra nei Balcani). Hanno negato a queste persone la possibilità di un lavoro legale, per poi crogiolarsi nel luogo comune secondo il quale “gli zingari rubano”. Hanno fatto poco o nulla perché i loro bambini andassero a scuola e si integrassero nella comunità.

Nonostante siamo tra i Paesi europei con la minore presenza di rom, l’Italia è l’unico Stato dell’Ue ad aver proclamato nel 2008 l’Emergenza rom, un piano del governo Berlusconi che prevedeva, tra le altre cose, la schedatura dei bambini con impronte digitali e una politica di sgomberi permanenti. Emergenza nomadi che è stata fatta decadere nel 2012 dalla Cassazione con l’accusa di discriminazione razziale. E non è un caso che, lo scorso anno, un’idea simile sia venuta al ministro dell’Interno, Matteo Salvini; un campione dell’intolleranza e dell’odio, che istiga milioni di italiani a cacciare – come con gli ebrei ai tempi del Fascismo – altri italiani. Spalleggiato in questo da una parte della stampa che (l’ultimo esempio è il vergognoso campionario di pregiudizi elencati da Filippo Facci in una recente puntata di Quarta Repubblica) cavalca l’onda razzista per ignoranza e superficialità.

Eppure, un modo per fare giustizia di tutti i preconcetti, i luoghi comuni, le becere (e comode) generalizzazioni di questi tempi c’è: basterebbe provare a risolvere il problema anziché agitarlo come una clava. A Messina, nel quinquennio 2013-2018 nel quale sono stato sindaco, la mia Amministrazione ha attivato diversi progetti mirati alla comunità ROM, intercettando finanziamenti del “PON Inclusione per Rom” (99 mila euro), finalizzati ad “interventi sui contesti abitativi e scolastici” e assistenza “educativa domiciliare”, e del “PON Città Metropolitane-Asse 3 Inclusione Sociale” (quasi un milione e mezzo di euro) per “Interventi e azioni sulla marginalità estrema con azioni inclusive per la comunità Rom”. Il progetto “Rom Empowerment” verteva sull’assistenza educativa per i minori; la mediazione; l’inserimento professionale e lavorativo per gli adulti; l’impresa sociale.

Il tutto in una realtà in cui, ancora pochi anni orsono, i Rom erano confinati nel campo nomadi di San Raineri in un contesto di degrado sociale e in condizioni incredibili dal punto di vista igienico-sanitario che sono rappresentati nel film Gli ultimi degli ultimi. Viaggio nel campo Rom di Messinarealizzato nel 2009 insieme al fotoreporter Enrico Di Giacomo (https://www.youtube.com/watch?v=OwN2UKB7jC0). Le famiglie trasferite da San Raineri, a dispetto di tutti i luoghi comuni e i pregiudizi che li accompagnano, hanno condiviso il percorso di integrazione tracciato dall’assessore alle Politiche sociali Nina Santisi, contribuendo in particolare alla scolarizzazione dei bambini. A Messina, praticamente tutti i piccoli Rom vanno a scuola con una percentuale di dispersione ormai trascurabile, anzi sono state le stesse famiglie Rom a chiedere di accedere al doposcuola (che viene svolto insieme ai bambini “italiani”).

In definitiva, se vogliamo risolvere “il problema dei Rom” dobbiamo prima risolvere il NOSTRO problema. La paura dell’altro, del diverso, che ci impedisce di vedere semplicemente che aiutare qualcuno, favorire il suo inserimento nella società non ci toglie necessariamente qualcosa. Non è un caso che il film Gli ultimi degli ultimi si concluda con questa citazione da Sogno in due tempi di Giorgio Gaber.

«Però una cosa l’ho capita. No, non che
se uno chiede aiuto gli arriva una legnata sui denti.
Questo lo sapevo già.Ho capito quanto sia pieno
di insidie, il termine aiutare. C’è così tanta
falsa coscienza, se non addirittura esibizione, nel volere a tutti i costi aiutare gli altri, che se per caso
mi capitasse, di fare del bene a qualcuno,
mi sentirei più pulito se potessi dire:
“Non l’ho fatto apposta”.
Forse solo così tra la parola aiutare e la parola vivere, non ci sarebbe più nessuna differenza».

Giorgio Gaber

Questo articolo è stato pubblicato qui

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