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Religione di alcuni, contagio di tutti

Mentre la pandemia di coronavirus continua a galoppare, in Italia e nel mondo i privilegi religiosi mettono a rischio la vita di tutti. Ne parla Adele Orioli nel n. 2/2021 della rivista Nessun Dogma.

Proprio mentre scriviamo la pandemia galoppa, in ondate che ormai sembrano essere sempre meno distinguibili fra loro, in una scia ancora emergenziale di morte e sofferenza.

L’Europa è pressoché tutta alle prese con restrizioni tra viaggi e spostamenti e tra aperture e chiusure, in varie gradazioni di lockdown. Nel resto del mondo, Usa e Brasile in testa, va persino peggio. Eppure proprio mentre scriviamo sta prendendo il via il mega raduno religioso di Kumbh-Mela sulle rive del Gange: milioni di pellegrini che si avvicenderanno (ma più spesso si assembreranno) fino ad aprile, forti dell’irrazionale vox populi che le divinità indù proteggano dal contagio.

Non c’è purtroppo nulla da sorridere, nessuna superiorità antropologico-culturale: a ben guardare nel nostro caro vecchio continente in molti sembrerebbero, mutatis mutandis o meglio mutata divinitate, sposare anche istituzionalmente la stessa irrazionale e pericolosissima convinzione che ove c’è fede non vi sia pericolo. Anche quando tutto, dati e tragica conta dei morti alla mano, dimostra il contrario. Anche quando certi evidenti e discriminatori occhi di riguardo nei confronti di alcuni mettono a rischio la stessa vita di tutti.

La prima ondata ha evidenziato in tutto il globo un indissolubile intreccio fra contagio e privilegio religioso. Malgrado sia oggettivo come la koinè non solo spirituale ma soprattutto fisica, in spazi ristretti, con pratiche cultuali scarsamente salubri ed evidentemente non igieniche – dalla condivisione del calice pentecostale alla suzione del prepuzio negli ebrei ortodossi, passando per le ostie e i cori a gran voce di casa nostra, fra i primi che saltano alla mente – non possono che portare a drammatiche conseguenze. Molto più della visione di un film al cinema o di una pièce a teatro, se vogliamo fare un paragone, e sarebbe doveroso lo facesse anche qualcun altro, con le attività ancora adesso chiuse a fronte di chiese più che aperte.

Ma per tornare ai sacri cluster dei tre monoteismi, dalla Corea a Israele, a New York come a Vallo di Diano, persino nella laica Francia, la prima ondata è stata agevolata e veicolata, quando non direttamente scatenata, da più o meno affollati raduni religiosi.

E come non ricordare nel periodo più stretto del lockdown italiano – quando persino Oltretevere sembravano aver almeno in parte accettato la chiusura cultuale, abbondantemente peraltro compensata da dirette e differite su tutte le tv di stato – le innumerevoli processioni, messe, battesimi svoltisi in spregio di qualsivoglia regola e con la sistematica protervia di chi è convinto di averne tutti i diritti. E non a caso già ai primi di maggio, in cima ad altre attività sicuramente più universali e nonostante a fine aprile il Comitato tecnico-scientifico parlasse di “criticità ineliminabili”, le celebrazioni sono tornate a esser consentite, con disciplinari antipandemia laschi più di un vecchio elastico, raccomandazioni affettuose più che prescrizioni necessarie per la tutela di tutti; e soprattutto lasciate senza controllo alcuno alla totale autonomia del parroco di turno. Che può anche scegliere di trasferirsi all’aperto con impianto audio per la gioia di tutto il quartiere.

A volte la riapertura delle chiese non è avvenuta senza la nostra collaborazione di contribuenti, volenti o nolenti, e a prescindere dai più di sei miliardi annui di soldi pubblici che già finiscono nelle casse vaticane. A Roma ad esempio sanificazione offerta dalla sindaca Raggi a tutte le trecento parrocchie, con l’assistenza dell’esercito. Non senza qualche borbottio dei militari stessi «scambiati per colf». È pur vero che per le normali quotidiane liturgie è difficile che vi possano essere chiese stracolme (secondo i dati delle stesse diocesi in pre covid), ma non poniamo limiti, non tanto alla provvidenza, quanto all’omeopatica funzione apotropaica del rito in tempi di pandemia. In ogni caso, dopo l’accordo che ha permesso aperture anticipate in primavera alla Cei, ne sono seguiti a ruota di simili con le confessioni stipulatrici di intesa e persino con quattro associazioni islamiche finora escluse o autoescluse da simili parterre.

In tempi così difficili l’ingiustificata corsia preferenziale di tutela del sacro risalta in tutta la sua incongruità. Ed è altrettanto vero come, a prescindere dai numeri di adepti e contagi, il ciarlare a tal proposito della doverosità di proteggere la libertà religiosa, come bene superiore da garantire a ogni costo, come supremo valore costituzionale, non vuole tener conto di quanto già con limpida razionalità si poteva leggere nella sentenza n. 45 del 1957 della Corte costituzionale. Lungi da parte sua voler sminuire il portato dell’art. 19 della Costituzione, che vede la libertà di professare, fare propaganda ed esercitare in pubblico e privato la propria religione limitata solo dalla contrarietà al buon costume; e lungi da parte nostra non considerare l’assoluta importanza dei diritti umani fondamentali. Ma la Consulta è comunque netta nel riportare la disciplina delle riunioni a carattere religioso sotto l’egida dell’articolo, non 19, ma 17 della nostra Carta: queste infatti «non si sottraggono alla disciplina generale di tutte le riunioni, per quanto riguarda e la libertà delle riunioni stesse e i limiti cui essa, nel superiore interesse della convivenza sociale, è sottoposta».

Le riunioni anche cultuali, insomma, possono essere vietate come tutte le altre solo per le ragioni elencate appunto dall’articolo 17. Che non certo per caso sono «comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica». Settant’anni fa, a quanto risulta, si aveva una visione forse più limpida del necessario contemperamento fra posizioni differenti e non sempre conciliabili l’una con l’altra, come l’inaspettata pandemia ha purtroppo sottolineato con crudezza.

Nel mentre la pandemia appunto, il virus, continua a galoppare. Ma con l’unica certezza che anche con l’Italia divisa a zone che siano gialle, arancioni o rosse si può sempre dire messa. Quel che si chiama una priorità.

D’altronde mentre si sprecano i richiami, per non dire le suppliche, di scienziati e personale sanitario allo stremo per aumentare il pedissequo rispetto delle norme anticontagio, abbiamo un Bergoglio puntualmente senza mascherina, che intrattiene personalità politiche e alte cariche della repubblica invitando gli interlocutori a levarsi le protezioni, perché la stanza dei colloqui è “ambiente sicuro”. A giudicare dai contagi che continuano a proliferare in conventi e monasteri, o a seguito di cerimonie e suffragi, a essere onesti sanità e santità parrebbero divergere non solo per una t. Anche se con pragmatica accettazione del far di necessità virtù, la congregazione per la dottrina della fede ha casualmente e ufficialmente dichiarato etico l’utilizzo di cellule di embrioni abortiti per produrre il vaccino, in mancanza di altre chance. Prima ancora, ma con sospetta coincidenza, che il Vaticano superasse circa 59 milioni di italiani in curva e riuscisse a immunizzare due papi e il loro entourage.

Perché va bene strepitare per le proprie libertà a scapito altrui ma alla resa dei conti, e sulla propria pelle, assai più della provvidenza a potere è la scienza.

Adele Orioli

 

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