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La Grecia, l’Europa, la Troika: Yanis Varoufakis e la battaglia contro l’austerità

Recentemente Yanis Varoufakis, ex Ministro delle Finanze greco, professore di economia politica e fondatore del movimento DieM25 (Democracy in Europe Movement 2025) ha detto la sua ai microfoni di Radio Popolare sul nuovo Governo italiano. Il nome del suo movimento è di per sé un programma molto ambizioso, e il professore gli tiene fede anche in questo caso: Draghi farà ciò che detta l’agenda europea, risparmiandoci un arrivo fisico della Troika.

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Il professore continua a essere molto visibile: ha fatto campagna contro la Brexit, pur con motivazioni molto diverse dalla maggior parte dei remainers, non nascondendo che la gestione europea dell’attuale crisi renda difficile dare torto ai brexiteers. Nonostante sia sempre stato un convintissimo europeista, anche sul Recovery Plan ha espresso una critica radicale. L’emissione di debito comune è solo una tantum e sarebbe niente, per Paesi come l’Italia, rispetto alle esigenze richieste dalla catastrofica caduta del PIL. Il divario rimanente andrà colmato con nuova austerità cui Mario Draghi è stato chiamato a ottemperare.

La Grecia è stata al centro dell’attenzione nell’ultimo decennio, soprattutto durante il culmine della crisi che nel 2015 vide Varoufakis ministro per circa 5 mesi, dal febbraio dopo l’exploit elettorale di Syriza, al referendum e poi alla resa dei primi di luglio. Ora il Paese, dice l’ex ministro, è più in bancarotta che mai: se nel 2015 il suo PIL era sui 175 miliardi di euro, ora è sui 162, mentre il suo debito è finito da 300 a 380 miliardi di euro. Ѐ una cura d’austerità che in proporzioni più piccole anche l’Italia ha subito quando, grazie alla politiche restrittive del Governo Monti, il rapporto tra debito e PIL passò dal 116% al 132%. Il fallimento dell’austerità sembra assodato ma forse non compreso dalle élites.

La stampa europea, così disponibile a sparare sull’ex ministro mentre era in carica, negli anni successivi ha versato lacrime di coccodrillo riportando i pentimenti di vari esponenti di spicco – tra cui Jean-Claude Juncker – ma facendo soprattutto ricadere la colpa sul FMI. Ha contribuito di certo la rivelazione di Wikileaks, che nel marzo 2016 faceva trapelare la telefonata di Poul Thomsen, responsabile del FMI per l’Europa, con il capo missione per la Grecia. Così sappiamo che, mentre la Commissione Europea pretendeva un obiettivo del 3,5% di avanzo primario, il Fondo chiedeva il 1,5% e una ristrutturazione del debito. Il Fondo valutava persino l’opportunità di uscire dalla Troika, consapevole come era sempre stato che nessun piano di salvataggio poteva essere sostenibile senza un taglio del debito.

Del resto, il Fondo, fin dal primo piano di salvataggio, per l’insistenza di Berlino e Parigi era dovuto venir meno alla sua regola d’oro: mai prestare soldi a uno Stato senza prima ristrutturane il debito. I soldi dei contribuenti brasiliani, indiani, giapponesi, cinesi e russi erano serviti a salvare le banche tedesche e francesi – dopo la crisi del 2008 piene di titoli spazzatura greci – e ora quei Paesi non erano più disposti a fare da tappabuchi per l’Europa.

“Adulti nella stanza”[1] – il libro in cui Varoufakis racconta l’esperienza di quei 5 mesi al Governo e della loro gestazione – ha nel titolo un omaggio ironico a Christine Lagarde. La direttrice del FMI – al culmine della crisi di quell’estate del 2015, in una delle tante inconcludenti riunioni dell’Eurogruppo – si espresse così sulla necessità di cercare un confronto tra “adulti”. La tesi dell’economista ateniese è che i creditori della Grecia, cioè la Troika (FMI, BCE e Commissione Europea), non fossero veramente interessati a riavere indietro i loro soldi.

Il percorso che porta al Governo, nel gennaio 2015, una federazione di movimenti e partiti della sinistra radicale, Syriza, non sarebbe stato possibile senza i due piani di salvataggio della Troika del 2010 e del 2012. La formazione, che fino al 2009 aveva il 4% dei consensi, riesce a ottenere quasi da sola la maggioranza necessaria a formare un Esecutivo nel 2015; un partito di destra a cui viene dato il Ministero della Difesa completa la coalizione. Il PASOK (formazione social-democratica) passa dal 43% del 2009 al 4% del 2015. Inoltre fanno capolino in Parlamento i neonazisti di Alba Dorata, eredità questa la più grave dell’austerità.

A un tale cataclisma politico fanno da contraltare le condizioni oggettive. Nel rapporto del 19 maggio 2014 il FMI scriveva che «la sostenibilità del debito rimane un problema serio» e che «il rapporto debito PIL si impennerà ancora»; «realizzare gli aggiustamenti fiscali ulteriori senza altri tagli nei salari nelle pensioni e nei sussidi sarà possibile solo con un drammatico efficientamento del settore pubblico»[2]. Sempre nel 2014 il salario minimo era sceso del 40% rispetto ai livelli pre-crisi, e insieme a esso le ore lavorate e il tasso di occupazione. Il dogma liberista secondo cui il calo del costo del lavoro determina un aumento dell’export in Grecia viene confutato dai fatti. Il calo del PIL in Regno Unito in séguito alla crisi del ‘29 impallidisce al confronto con quello ellenico, ridottosi del 20% tra il 2009 e il 2014.

Entrato Varoufakis in carica, circa mezzo milione di persone non prendeva lo stipendio da 6 mesi. Il suo “humanitarian bill”, che dotava i più poveri di una sorta di reddito minimo di emergenza, viene aspramente criticato dalla Troika, la quale gli rinfaccia anche la riassunzione di trecento lavoratori ministeriali delle pulizie licenziati dal precedente Governo. Allo stesso tempo il suo piano per un algoritmo per scovare i grandi evasori viene ostacolato, mentre le “istituzioni” (così veniva chiamata la Troika nei consessi ufficiali per migliorarne la fama deteriorata) insistono sul recupero di una somma di 9 miliardi, detenuta da contribuenti che possiedono meno di 2000 euro ciascuno.

Quando si parla di “arrivo della Troika” va inteso letteralmente: tecnici e ufficiali delle “istituzioni” si installano nei vari ministeri e vanno in giro chiedendo dati, documenti e facendo domande. Come regalo dai precedenti piani di salvataggio, il Governo di Alexis Tsipras eredita interi settori ministeriali sotto il diretto controllo di Bruxelles: il dipartimento delle tasse e l’ufficio statistico rispondono solo alla Troika e i suoi dirigenti sono da essa nominati. Paradossalmente, tuttavia, il ministro è responsabile del loro operato. Anche lo HFSF (Hellenic Financial Stability Fund), nutrito con i soldi dei primi due piani di salvataggio e posseduto in parte dalle banche elleniche, risponde solo alla Troika e il suo consiglio di amministrazione è da essa nominato. Gli sforzi del ministro per abbassarne gli stipendi, allora più alti di quello del primo ministro, vengono fortemente criticati delle ”istituzioni” che appena possono li riaumentano del 71%.

Yanis Varoufakis non è un militante di Syriza al momento della nomina ministeriale, né lo è stato mai dopo. Fin dal primo piano di salvataggio nel 2010 l’economista è una voce critica contro prestiti che considerava irrestituibili qualunque fosse stata l’austerità adottata. Fu censurato e considerato uno iettatore dalle televisioni e dalla stampa greca. Poco prima della vittoria di Syriza, il professore accetta il ruolo di Ministro delle Finanze dietro condizione di candidarsi alle elezioni parlamentari. Tsipras e i dirigenti della federazione avrebbero invece preferito rimanesse un tecnico non eletto e non organico. Il motivo diventerà presto chiaro durante gli estenuanti mesi di trattativa: Varoufakis doveva essere sacrificabile, additabile e non creare rischi di tensioni interne.

Questa sua estraneità, nonostante avesse ottenuto il seggio con un numero altissimo di preferenze, è uno dei punti deboli che minerà alla base il suo compito. L’adesione di Tsipras alla strategia da lui ideata per la trattativa con la Troika si rivela fallace. Il piano è semplice: porre come condizione prioritaria un taglio del debito e un progetto di riforme per rendere sostenibili i prestiti, obiettivo impossibile senza crescita e antitetico all’austerità. La proposta include uno scambio di titoli, quelli detenuti dalla BCE, con nuovi titoli trentennali a un tasso di interesse agganciato al tasso di crescita. Insieme a misure di mitigazione della povertà, all’algoritmo per stanare i grandi evasori, a un obiettivo di avanzo primario al massimo del 1,5% e a una serie di altre riforme, ciò doveva essere la base di discussione per dimostrare la buona volontà del nuovo Governo verso i creditori.

Richieste ragionevoli dunque. Una ragionevolezza che si scontra ben presto con la testardaggine di Jeroen Dijsselbloem, allora presidente dell’Eurogruppo: «il programma attuale deve essere completato o non c’è nient’altro!»[3]. La strategia concordata con i dirigenti di Syriza prevedeva che, se Bruxelles li avesse messi con le spalle al muro, avrebbero messo in campo un deterrente per costringerli a trattare. Questo, da attivare nel caso la BCE avesse chiuso la liquidità d’emergenza isolando il Paese, o al limite nel caso di rifiuto a trattare, consisteva nel fare default e attivare un sistema parallelo di pagamento elettronico sempre denominato in euro. Sarebbe stato facile, si fosse volta la situazione al peggio, ridenominare la moneta elettronica attivando il famigerato piano X di uscita dall’eurozona.

Varoufakis non vuole uscire dall’eurozona, perché è un convinto europeista e perché una svalutazione annunciata mesi prima sarebbe un disastro. Allo stesso tempo però sa bene che non ha senso sedersi a trattare se non si è disposti a fermarsi e dire basta. L’economista lavora quindi, insieme al collega americano Jamie Galbraith, al piano X. Ѐ stato molto criticato per questo anche dai suoi ex compagni che prima si dicevano tutti d’accordo; persino fu ventilata un’accusa di tradimento nei suoi confronti. Ma esisteva un piano simmetrico della Troika in caso di uscita della Grecia. Wolfgang Schäuble invero avrebbe voluto la Grexit: «non credo che alcun Governo possa essere in grado di tenere la Grecia nell’eurozona»[4], dice al ministro ellenico in uno dei tanti loro incontri privati a margine dell’Eurogruppo.

Il ministro tedesco offre al suo omologo, ormai trattativa in stallo, che i rispettivi primi ministri si incontrino, e discutano di una temporanea uscita della Grecia dall’eurozona supportata dall’aiuto europeo. Questa volta però è Angela Merkel, il vero falco di tutta la storia, a non essere d’accordo. La strategia della cancelliera è estremamente astuta. Alla fine di marzo, provata ormai l’incontrastabile reticenza di Varoufakis alla resa, accetta di incontrare privatamente Tsipras. Fa credere al capo del Governo greco che una soluzione tra loro due sia possibile estromettendo Varoufakis, Schäuble e le “istituzioni”, salvo prendere tempo e poi abbandonarlo un mese dopo. Per i greci va di male in peggio. Alexis Tsipras arriva a firmare concessioni senza metterne a parte il suo Ministro delle Finanze, il quale scopre per caso che aveva acconsentito a un avanzo primario del 3,5% per molti anni a venire.

La breve storia del professore ministro è anche la storia della minorità dei socialisti europei e della subalternità degli Stati (a prescindere dalla loro guida politica) alla Germania. Nei viaggi che Varoufakis compie per stabilire contatti con l’élite i risultati sono miseri. Gli unici successi li ottiene con gli americani e con i cinesi. Nel primo caso guadagna l’importante appoggio di Barack Obama, di Bernie Sanders, di accademici e politici statunitensi; persino fa breccia nell’attenzione dei finanzieri londinesi. Nel secondo caso, invece, i pure importanti accordi con Pechino vengono ostacolati dall’intervento a gamba tesa di Berlino. Ciò che al contrario rattrista è l’ambivalenza del vicecancelliere socialdemocratico tedesco, del ministro socialista francese Sapin, di quello italiano Padoan, e anche – più scontato – di quello conservatore spagnolo: tutti concordi a parole ma poi altrettanto svelti ad assumere l’agenda di Berlino in pubblico.

L’incontro di Varoufakis con Pier Carlo Padoan, allora Ministro dell’Economia e delle Finanze nel Governo Renzi, aiuta a fare luce sul carattere delle classi dirigenti italiane. Padoan gli racconta di come inizialmente fosse trattato con ostilità da Schäuble, finché non decise di chiedergli cosa potesse fare per ottenere la sua fiducia: un riconoscimento anelato da tutti i ministri delle finanze dell’eurozona. Sembra che il collega tedesco gli abbia risposto: «la riforma del mercato del lavoro»[5]. Ecco la genesi del Jobs Act ed ecco spiegato come certe politiche vengano chieste dall’establishment europeo anche al d fuori dei canali ufficiali.

La strategia della Troika diventa chiara a fine giugno: resa incondizionata, prendere o lasciare, possibilmente spezzare le reni a un movimento politico che aveva osato sfidarla. Quando il presidente Dijsselblloem decide, prima volta in assoluto, di emanare un comunicato senza l’unanimità e di riconvocare la seduta senza il rappresentante greco, Varoufakis chiede a uno dei segretari se ciò sia legalmente possibile. La risposta è una definizione perfetta di tecnocrazia.

Ministro, l’Eurogruppo non esiste nel diritto perché non è parte di alcuno dei trattati europei. Ѐ un gruppo informale dei ministri delle finanze degli Stati membri dell’eurozona. Non ci sono regole scritte sul suo funzionamento, quindi il presidente non è vincolato da alcuna norma.[6]

L’Eurogruppo non esiste, eppure lì si prendono la maggior parte delle decisioni che contano e che vengono poi ratificate dal Consiglio UE. La Troika neanche esiste se non come insieme di parti contraenti un Memorandum, ma in questa vicenda partecipa in maniera preponderante a tutte le riunioni dell’Eurogruppo. Gli interventi dei vari ministri in questi raduni erano la fotocopia di ciò che poi avrebbe detto Schäuble: era chiaro chi era al timone. Ma se a Merkel o a Dijsselbloem venivano presentate delle proposte, ai greci veniva risposto di rivolgersi alle “istituzioni”. Le “istituzioni”, da parte loro, rimpallavano la responsabilità sostenendo di non avere il mandato a prendere decisioni politiche. Se poi all’Eurogruppo veniva fatta una proposta scritta, Schäuble rispondeva di non poterla accettare perché avrebbe dovuto portarla al Bundestag. Così la stampa poteva scrivere che i greci erano di nuovo senza proposte.

Oltre alla dilazione, al rimpallo delle responsabilità e al tentativo di dividere il fronte tra Tsipras e Varoufakis, la tattica della Troika si basa sulla campagna di disinformazione e sulla stretta della liquidità attraverso la BCE. Inizia già a dicembre quando la vittoria di Syriza era ormai prevedibile. In quel mese Stournaras – governatore della banca centrale ellenica appena nominato dal Governo uscente – rilascia dichiarazioni allarmanti che diffondono il panico e scatenano una corsa agli sportelli. Sùbito dopo l’insediamento del Governo Tsipras, Varoufakis incontra Mario Draghi, allora governatore della BCE, il quale gli comunica che di lì a poco avrebbe tolto alle banche greche la possibilità di ricevere liquidità in cambio dei loro titoli deteriorati. Questo scatena un’altra fuga di capitali a cui si aggiunge il divieto imposto alle banche di comprare buoni trimestrali del Tesoro.

Altre dichiarazioni del governatore – sebbene egli abbia sempre negato la politicità e rivendicato l’indipendenza della BCE – mettono in cattiva luce il Governo greco, come quando definisce Tsipras e Varoufakis dei “chiacchieroni”. La minaccia di chiudere i rubinetti non viene realizzata da Draghi solo perché il Governo, ormai sconfitto, la anticipa contro il parere del suo Ministro delle Finanze e mette restrizioni sui movimenti di capitali.

Tuttavia, anche se il Governo non avesse imposto il limite giornaliero di prelievo durante la settimana precedente il referendum, la BCE avrebbe ugualmente chiuso la liquidità d’emergenza. Le minacce erano esplicite e in séguito se ne sono avute le conferme. Nel 2017 l’eurodeputato della Linke, Fabio De Masi, venne a sapere che Draghi aveva commissionato un parere legale a una società privata sulla liceità da parte della BCE di chiudere le banche greche, dando vita alla campagna #thegreekfiles.

Quando viene indetto il referendum sulla proposta-ultimatum della Troika, il professore ateniese è uno dei pochi nel “gabinetto di guerra” a fare convintamente campagna per il no. Altri aspettano l’alibi per firmare il Memorandum. Il no stravince con uno strabiliante 61%, segno che il popolo greco non vuole capitolare e non cede al ricatto messo in opera dalla BCE. Yanis Varoufakis, di fronte all’intenzione di Tsipras di firmare la resa, si dimette sùbito dopo il risultato. A metà agosto viene approvato dal Parlamento un Memorandum peggiore di quello del 2012. L’obiettivo delle “istituzioni” è raggiunto: la minaccia politica è sconfitta, anche se il debito greco è ancor meno sostenibile di prima. L’anno successivo il Governo si ritroverà da capo al tavolo delle trattative.

Eppure Cipro, le cui banche furono chiuse dalla BCE nel 2013 per convincere il Governo dell’isola a firmare il piano di salvataggio, avrebbe dovuto servire d’esempio ai ribelli greci. Dopo la crisi del 2015, nel 2016 il referendum in Regno Unito viene vinto dai brexiteers. Negli anni a venire i partiti populisti acquisiscono sempre più consenso, fino al Governo giallo-verde in Italia. Da allora la spinta si è invertita e secondo i commentatori il momento populista si è arrestato. Il Governo Draghi lo dimostrerebbe. Tuttavia, comprendere la crisi greca consente di prevedere le reazioni che una nuova austerità potrebbe provocare, sia dal punto di vista popolare che da quello dell’establishment.


[1] Y. VAROUFAKIS, Adults in the Room, Vintage, London, 2018. Tutte le citazioni nel presente articolo sono estrapolate e tradotte da questa edizione inglese.

[2] Ivi, p. 515.

[3] Ivi, p. 167.

[4] Ivi, p. 338.

[5] Ivi, p. 200.

[6] Ivi, p. 447.

Foto: Marc Lozano/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

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