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La Gelmini sconfessa la Moratti

La Gelmini sconfessa la Moratti

Senza citarla direttamente, il ministro dell’Istruzione boccia la ministra che l’ha preceduta stroncando la riforma universitaria che porta la sua firma. Non è che ci volesse molto a capire che il nuovo ordinamento universitario fa acqua da tutte le parti.

Erano sbagliati innanzitutto i presupposti. Siccome l’Italia tra tutti i paesi occidentali aveva il più alto differenziale tra giovani matricole e laureati, la Moratti - ed il governo Berlusconi di allora - pensò che bastava cambiare le regole del gioco per rimettersi al pari degli altri paesi (un po’ quello che sta succedendo in questi giorni con l’indebitamento statale: sì, siamo indebitati come stato, ma risparmiosi come famiglie).

A distanza di anni si è constatato che la situazione non è cambiata di molto. Chi prima si laureava in quattro anni, oggi - là dove è previsto il 3+2 - si laurea in cinque se può, oppure abbandona dopo il titolo triennale, con la conseguenza che il laureato di primo livello viene considerato un super diplomato o un quasi laureato, e chi raggiunge la specialistica ha in mano un pezzo di carta del valore della vecchia laurea quadriennale, ma con un anno di studi in più.

"La responsabilità - dice il professor Guido Fiegna, membro del Comitato nazionale valutazione sistema universitario — è in parte attribuibile alle università che non hanno ridisegnato i corsi, cambiando la sequenza delle discipline, i tempi e i modi di insegnamento". Può essere. Quello che hanno fatto bene gli atenei è stato riuscire a scatenare la fantasia, inaugurando corsi di laurea che non servivano ad una beata mazza, se non a far cassa con le tasse d’iscrizione e frequenza. Tant’è che molti di quei corsi col tempo sono stati soppressi perché i giovani, resisi conto dell’inutilità degli studi ai fini lavorativi, alla fine li hanno disertati.

Alla riforma Moratti è mancato il passo successivo: collegare la laurea triennale al lavoro, attraverso il riconoscimento legale dei titoli nuovi, attraverso l’equiparazione con vecchi titoli analoghi.

Prendiamo il caso di mia figlia, laureatasi con la triennale a Perugia in Tecniche erboristiche, corso di studi affascinante, dalle belle speranze, a metà strada tra Farmacia e Scienze forestali. Bene, una volta uscita ha verificato che neanche a livello pubblico esiste la figura del dottore erborista, e là dove sono previsti dei posti di lavoro, a tutt’oggi basta esibire un pezzo di carta attestante la frequenza di un qualsiasi corso Radio Elettra di qualche settimana. Nonostante la laurea, un dottore erborista non può vendere una tisana o una crema o un profumo o un liquore a base di erbe officinali di sua creazione, perché la legge - mai modificata - ne dà l’esclusiva ai farmacisti (potenza delle lobby!).

La presa per i fondelli di tanti giovani si basava, ancora una volta, sullo stile americano della specializzazione, per cui un Nobel in medicina riuscì a dire delle castronate planetarie sul raffreddore, che neanche un nostro studente del secondo anno avrebbe mai detto.

Tutto sommato era meglio quando l’università italiana dava una forte base culturale, riconosciutaci nel mondo intero. Oggi - come allora - la scuola è totalmente avulsa dal mondo del lavoro che non ha mai voluto rapportarsi con la scuola, ma in più i dottori di oggi di fatto non sono più riconosciuti come detentori di cultura. Però per la prima volta il governo ha fatto la "riforma".

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