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L’Italia tra crisi di governo e crisi di sistema: intervista ad Alessandro Campi

Alessandro Campi è professore ordinario di Scienza politica presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Perugia. Editorialista per i quotidiani Il Messaggero e Il Mattinoda dieci anni dirige l’Istituto di Politica e la relativa rivista online. L’Osservatorio Globalizzazione dialoga con lui sugli scenari aperti dall’attuale situazione di crisi riguardante il governo Conte e sul ruolo che i partiti, il premier e il Presidente Mattarella giocheranno nella sua risoluzione.

In questa situazione intricatissima, ci mancava la crisi di governo. Ha vinto qualcuno nel duello fra Conte e Renzi al Senato o si andrà al secondo round?

Ci sarà sicuramente un secondo round, ma forse anche un terzo o un quarto. Il voto di martedì non ha risolto nulla dal punto di vista del governo. È chiaro che la fiducia che è stata ottenuta non basta per il lavoro che andrà fatto nelle prossime settimane. Lo stesso Mattarella credo che abbia fatto presenti le sue preoccupazioni a Conte durante il loro incontro, subito dopo la votazione.

E quindi adesso si apre la partita tesa ad allargare la maggioranza. Su questo versante occorre fare una distinzione importante: un conto è l’aspetto numerico, e quindi la possibilità di trovare alcuni cosiddetti “responsabili” disposti a sostenere l’attuale presidente del Consiglio; un altro conto è avere una maggioranza politica, riuscire cioè a mettere insieme una compagine che abbia la capacità di operare e che non determini contrasti interni, pressioni o veri e propri ricatti nei confronti del governo. A maggior ragione in questa fase particolarmente delicata per il Paese.

Si è fatto un’idea su cosa abbia realmente spinto Renzi a causare la crisi di governo?

Un’interpretazione che è circolata molto in questi giorni è che lui abbia aperto la crisi senza che ce ne fossero le ragioni. Sicuramente ci saranno anche stati dei calcoli personali (il fatto che, come si suggerisce, il senatore fiorentino non possa far parte di un governo di cui non sia il presidente del Consiglio, l’antipatia profonda che sembra esserci nei confronti di Conte). Però io non mi fermerei sul piano della psicopolitica, che spiega molto, ma non spiega tutto.

Ci sono delle ragioni politiche e strategiche che secondo me hanno spinto Renzi a questa crisi. Lui ha dato corpo a un malessere che circolava da tempo. Il problema è che, essendoci la pandemia, questi conflitti erano stati temporaneamente seppelliti, ma era abbastanza chiaro da qualche mese che questo era un governo sostanzialmente bloccato, incapace di muoversi in maniera collegiale e coerente.

Essendo un governo di coalizione, le diverse voci che lo compongono dovrebbero potersi far sentire, mentre in effetti era prevalsa una gestione sempre più personalistica e accentratrice di Conte. Ovviamente favorita dalla pandemia, che però non può essere un pretesto per commettere errori grossolani o per stravolgere completamente le regole del gioco. Di questo erano consapevoli il Pd e lo stesso Movimento 5 stelle. Renzi, forse perché ha uno spirito avventuriero, ha fatto quello che avrebbero dovuto fare gli altri due partiti.

Ma allora perché ha fatto un mezzo passo indietro astenendosi in Senato, anziché negare la fiducia?

Da un lato sicuramente Renzi non poteva forzare troppo la mano, avrebbe dato l’occasione a qualcuno del suo gruppo parlamentare di sganciarsi, e in questo senso l’astensione è stata una scelta tattica. Dopodiché, se vuoi aprire una nuova fase politica, nella logica parlamentare ti devi sempre lasciare aperta una via di fuga, non puoi essere troppo assertivo, né troppo precipitoso e imboccare una strada che potrebbe rivelarsi un vicolo cieco. Renzi in realtà non vuol passare all’opposizione, non vuole mettersi a fare il gioco di sponda con Salvini e la Meloni. Lui ha un obiettivo diverso.

Che sarebbe buttare giù Conte?

Detta così è un pochino brutale, ma è una cosa che ha un suo senso politico. Renzi probabilmente ritiene che l’attuale presidente del Consiglio non sia la persona giusta per gestire questa fase e che abbia anche un po’ superato i limiti del suo mandato.

Conte alla fine era stato scelto perché facesse il mediatore, praticamente la stessa ragione per cui era stato individuato da Salvini e Di Maio. Non avendo una sua forza politica autonoma doveva limitarsi ad agire da garante degli equilibri. Nel frattempo però il suo ruolo è profondamente cambiato: ha assunto un protagonismo che probabilmente non ci si immaginava potesse avere, sino a lasciar ventilare la possibilità che si facesse un partito tutto suo, addirittura a far presagire ambizioni presidenziali. Insomma, alla faccia del professore prestato alla politica!

Perciò Renzi ha fatto questa battaglia, e non è detto che l’abbia persa. Intanto perché ha posto una serie di problemi che avevano una loro oggettiva consistenza, e questo gli è stato riconosciuto, tanto che lo stesso Conte ha dovuto fare significative marce indietro su punti rilevanti, come la delega ai servizi segreti o la questione del Recovery plan, che è molto delicata: si stava andando a presentare una bozza di progetto veramente inconsistente, e ancora adesso non è che sia migliorata più di tanto. Da quel che si legge e dice c’è grande preoccupazione in Europa perché noi siamo molto in ritardo.

A proposito, secondo Lei ci possono essere state anche spinte internazionali dietro alla mossa di Renzi?

Probabilmente ci sono anche questi aspetti internazionali. Per esempio, in Europa era tale la paura di Salvini che si sarebbe accolta qualunque altra soluzione pur di non ritrovarselo di fronte. Perciò quando si è presentato questo signore molto garbato e tranquillo, con la sua indubbia competenza professionale, anche se totalmente inesperto dal punto di vista politico, lo si è considerato un interlocutore accettabile.

Dopodiché la debolezza del governo italiano non è sfuggita nemmeno alle cancellerie internazionali, così come il fatto che, ripeto, il Recovery plan avesse un’impostazione assai discutibile, con la possibilità (non ancora tramontata) che possa essere uno strumento per distribuire sussidi a pioggia. L’Unione europea non dà i soldi per fare cose del genere. Per cui a livello comunitario ci sono preoccupazioni molto serie, e non è che Conte sia considerato insostituibile: queste sono cose che si dicono un po’ sul filo della propaganda.

E l’ipotizzato aggancio di Renzi in ambienti statunitensi per ottenere il ruolo di segretario generale della Nato?

Sono aspetti che sinceramente lascerei da parte, giochi di illazioni e quant’altro. È chiaro che a quel livello tutti aspirano a qualcosa, ma un posto del genere non viene assegnato così, per accontentare gli appetiti di questo o quello. E la caduta di Conte non può essere la moneta di scambio.

Passiamo al ruolo delle forze politiche. I 5 stelle, partito di maggioranza relativa in Parlamento, hanno una strategia?

Dire di no. È il motivo per cui subiscono così tanto la figura di Conte, pur senza ammetterlo apertamente. Però sono stati costretti a fare quadrato attorno a lui, un po’ perché a suo tempo lo avevano designato loro, un po’ perché sono talmente divisi al loro interno che a questo punto Conte è veramente il male minore. Diciamo che l’unica strategia individuabile nei 5 stelle ora come ora è quella di rimandare quanto più possibile qualunque verifica elettorale, perché è un partito che viene da un trend tragicamente decrescente dal 2018 in poi. Le elezioni politiche potrebbero essere veramente il colpo mortale per loro, o quantomeno segnarne un drastico ridimensionamento.

Al centrosinistra converrebbe più sbarazzarsi di Renzi, di Conte, o magari di entrambi?

Nei confronti di Renzi è chiaro che c’è anche una partita interna: non dimentichiamoci che lui è stato protagonista di una frattura molto dura nel Pd e non è mai stato amato da una certa nomenklatura ex-comunista ed ex-democristiana, per cui l’idea di toglierselo dai piedi è una tentazione grande all’interno del partito.

Però Renzi è l’obiettivo piccolo: se il Pd avesse una visione strategica diversa da quella che ha, che mi pare francamente suicida, si porrebbe soprattutto il problema di Conte. E cioè un signore che probabilmente farà un partito che, se dovesse nascere, non prenderà mica i voti a Salvini o alla Meloni, ma li prenderà al Partito democratico, quindi non capisco questa loro volontà di sostenerlo sempre e comunque.

Al loro posto avrei preso elegantemente la palla al balzo e avrei cominciato a fare un pressing per una soluzione, che può darsi che alla fine si decidano comunque a prendere, che salvi capra e cavoli. Una soluzione che mantenga cioè in piedi questa maggioranza, magari anche recuperando tatticamente Italia viva (anche perché, per quanto Renzi sia antipatico, immagino ci sia meno distanza con il suo partito piuttosto di quanta ce ne possa essere con Forza Italia o l’Udc). Al tempo stesso, però, chiudendo con Conte e con una fase politica che probabilmente aveva un senso quando è nata ma che adesso rischia di non averne più nessuno.

L’unità del centrodestra per ora ha retto, a parte defezioni isolate. Durerà?

Considerando il trend elettorale e il drastico taglio dei parlamentari che si produrrà a partire dalla prossima legislatura, in questo momento il centrodestra è l’unico che abbia qualcosa da offrire, agli uscenti come ai potenziali entranti. Motivo per cui non ha grande interesse a dividersi, anzi. I parlamentari che passano dall’altra parte possono lucrare qualcosa nell’immediato, un posto da sottosegretario o cose simili, ma il giorno delle elezioni cosa faranno? Chi ha ambizioni a rientrare in parlamento nel centrodestra ha tutto l’interesse a restare dove sta.

Ma i moderati di Forza Italia non rischiano di subire la linea “sovranista” di Lega e Fdi? E lo stesso Berlusconi non ha lasciato trasparire diversi malumori a riguardo?

Per quanto riguarda i cosiddetti moderati, sì, rischiano di subire, ma qui c’è da considerare un fattore storico generale. Questa è un’alleanza che si è incrinata molte volte ma che non si è mai rotta. Al dunque, tutti i malumori di Berlusconi sono rientrati perché il centrodestra, per quanto oggi molto squilibrato rispetto al passato, è comunque una sua creatura da cui lui non si è mai distaccato.

Dunque, defezioni singole ci possono pure stare, ma l’eventualità di una spaccatura verticale per cui Forza Italia rompe con Salvini e fa un governo col Pd io francamente non la vedo, anche perché è una cosa che probabilmente verrebbe sanzionata dagli elettori. Il fatto poi che Berlusconi abbia ogni tanto degli abboccamenti col governo, sfruttando anche la debolezza dell’attuale maggioranza, è una cosa che lascia il tempo che trova. Anche perché lui è un uomo furbissimo: incassato poche settimane fa il provvedimento su Mediaset che lo interessava, ad esempio, è tornato allegramente nell’alveo del centrodestra.

Quanto sono decisive le due partite sul Recovery plan e sul prossimo inquilino del Quirinale in questo quadro? Chi decide su tali questioni, in fondo, potrebbe riuscire quasi a non far toccare palla agli avversari nel prossimo futuro.

Sono molto importanti, ma io insisterei in particolare sulla questione del Recovery. Dato che parliamo del futuro dell’Italia, non puoi gestire questa cosa con una logica partigiana e strumentale a vantaggio tuo e a danno dell’altra metà del Paese.

Io ad esempio sono tra quelli che, rispetto a questa crisi, hanno sostenuto che lo sbocco politicamente più razionale e utile sarebbe quello di un governo istituzionale. Non un governo tecnico con a capo Draghi, che è un’ipotesi che lascia il tempo che trova, ma un esecutivo che coinvolga tutti quelli che ci vogliono stare, proprio perché c’è una partita molto grossa da decidere. Questa partita è rappresentata da un lato dal Recovery plan e dall’altro dalla gestione dell’emergenza: tutti continuano a dire che siamo in guerra, che siamo in una situazione di estrema difficoltà economica e sociale. Se non lo fai adesso un governo nell’interesse di tutti, quando lo fai, quando scoppierà la terza guerra mondiale?

Questa considerazione mi porta a chiederLe una riflessione sull’atavica tendenza all’ingovernabilità del nostro Paese, che pare addirittura aumentata in un momento così drammatico.

L’Italia da quel punto di vista è un malato terminale. E, d’altro canto, se non fosse stato così non ci sarebbe stato Giuseppe Conte al governo del Paese. Noi viviamo in un sistema politico in cui si può tirar fuori, come un coniglio dal cilindro, un perfetto sconosciuto e farlo diventare presidente del Consiglio. Al di là del giudizio sulla persona, che può anche essere il miglior professore di diritto del mondo, il modo in cui è stato selezionato per un incarico come quello dà l’idea di un sistema totalmente impazzito, in cui sono saltate tutte le regole.

Ne usciremo?

No, almeno non nell’immediato. I tentativi che sono stati fatti di correggere un po’ la struttura del nostro sistema istituzionale sono falliti: spesso sono stati proposti anche male per carità, ma poi si sono infranti contro questa cultura molto conservatrice dominante in Italia, che però stiamo pagando con gli interessi. Per non toccare nulla abbiamo accettato che il nostro sistema si corrodesse profondamente dall’interno fino sostanzialmente a non funzionare più.

Di tutti i correttivi che si erano immaginati per avere governi più solidi, per rilanciare la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni, non ha funzionato niente. Siamo qui ancora a mettere in piedi governi traballanti sostenuti da qualche voltagabbana e abbiamo un’opinione pubblica che continua a non fidarsi della classe politica, guardando a ciò che succede nel palazzo con un atteggiamento di fastidio e di incomprensione al tempo stesso. Per cui, malati eravamo e malati siamo rimasti. E l’emergenza non aiuta di certo.

Clicca qui per leggere tutte le interviste dell’Osservatorio.

Foto: Wikimedia

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