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L’America s’indebita un po’ di piu: alleluja?

"Mi dispiace moltissimo per quel che gli americani han scelto per sé, ma non più di quanto dispiaccia loro perché il mio paese ha scelto un guitto come presidente del Consiglio. Il fatto che continuino imperterriti ad esaltare il proprio dispendiosissimo modo di vivere, invece, mi spaventa; per difenderlo potremmo essere chiamati a pagare, e non solo con denaro, anche noi e i nostri figli".

Conosco l'accordo raggiunto tra democratici e repubblicani, per l'innalzamento del debito pubblico americano, solo nelle sue linee generali, ma certo non posso che scuotere il capo davanti alla prospettiva di tagli sistematici al già quasi inesistente stato sociale d'oltreoceano. Premesso questo, devo anche dire che qualcosa per limitare la crescita del debito statunitense andava fatta e, anzi, che è stata fatta già troppo tardi.

Da europeo, convinto della necessità di garantire a tutti i cittadini educazione ed assistenza sanitaria, avrei ovviamente preferito che si fossero aumentate le tasse ai ceti più ricchi, ma, sempre da europeo, devo anche dire che quel che gli americani vogliono per se stessi è affare solo loro.

Quel che è affare di tutti è la debolezza strutturale dell'economia statunitense (parlo dell'economia reale e non della finanza); di un paese che ha smesso d'essere la fabbrica del mondo per diventarne il gendarme o, se si interpretano correttamente le loro ultime iniziative militari, il "rapinatore a mano (nuclearmente) armata".

Dal 1895 a ieri (il sorpasso delle Cina nei loro confronti è avvenuto nel 2010) gli Stati Uniti sono stati la massima potenza industriale del pianeta; oggi nelle loro industrie lavorano solo 11.5 milioni di persone che, pur con una produttività assai elevata (quella oraria è seconda a solo a quella dei norvegesi), sono troppo poche per garantire il benessere a 350 milioni di voracissimi consumatori. 

Non si produce più reale ricchezza, negli Stati Uniti, ma gigantesche ricchezze vi sono consumate; questo è lo squilibrio di fondo che minaccia, prima o poi, di far saltare i bilanci, non solo finanziari, del mondo.

Viene da ridere quando si parla della solidità finanziaria degli Stati Uniti; quando qualcuno dubita che possano pagare i loro debiti. In cosa sono denominati questi debiti? In dollari. Che cosa rappresentano quei dollari? Una quantità fissa d’oro, petrolio od altro? No: valgono solo perché sono la moneta con cui il governo americano esige che gli vengano pagate le tasse. E quanti sono quei dollari? Quelli che la Banca d’America vuole. Nessun dubbio, dunque, che gli Stati Uniti possano pagare, in dollari sonanti, i propri debiti; il dubbio è su quale sarà domani il valore di quei dollari che la Banca d’America può produrre a volontà. Non sono, in sé, neppure pezzi di carta; solo dei bite scambiati tra computer. Il discorso vale per qualunque moneta di qualunque paese, ma due fattori rendono particolare la situazione americana: il primo è che nessuna grande economia presenta un tale squilibrio tra quanto viene realmente prodotto e realmente consumato al suo interno; il secondo è che il dollaro è, ancora oggi, la pietra su cui si fonda il castello di carte, anzi di bite, della finanza internazionale, ed è questo che ha consentito agli Stati Uniti, negli ultimi decenni, di vivere e benissimo senza esportare altro che debiti. Debiti, oltre alle bombe sganciate un po’ ovunque sul pianeta per difendere, prima di qualunque ideale, questo primato finanziario.

Mi rendo benissimo conto che i marchi americani dominano molti mercati, ma attribuire un valore a questi marchi, scollegarli dal prodotto sottostante, realizzato e sempre più spesso sviluppato altrove, rappresenta, a lungo termine, un atto di fede.Un atto di una fede assai più irrazionale di quella che attribuisce un valore reale al dollaro.

Detto altrimenti, oggi qualcuno è disposto a pagare un premio per indossare delle scarpe sportive mobilitate da un marchio, ma nessuno ci dice che così debba essere anche domani e, soprattutto, che sempre quello debba essere il marchio: i consumatori, tra un anno o un secolo, potrebbero volere ai propri piedi le Fu Manchù o, semplicemente, delle scarpe; il valore di quei marchi, a lungo termine, si può tranquillamente assumere pari a ... zero.

Quel che da europei dobbiamo augurarci è che i nostri amici d’oltreoceano tornino a produrre, cosa che gli riusciva benissimo, anche in competizione con noi, e soprattutto che imparino ad essere meno voraci: non possono pretendere di sostenere indefinitamente la situazione attuale; non può il cittadino medio americano, con il suo sacro egoismo, continuare a consumare il doppio dell’energia di un tedesco o il triplo di un italiano senza offrire, in cambio, altro che la propria carta straccia.

Con buona pace dei creduli sostenitori dello scontro di civiltà, è questa la maggior minaccia alla pace mondiale; la lotta per le risorse tra chi le sperpera e chi le usa per migliorare le condizioni di vita dei propri cittadini.

Cinesi e indiani hanno le fabbriche e, ormai, la tecnologia; gli Stati Uniti hanno la finanza e la voracità di una società che ha fatto del consumismo la propria religione.

È un equilibrio delicatissimo, destinato a durare solo fino a che cinesi ed indiani si accontenteranno di sgobbare e consumare poco; quando pretenderanno condizioni di vita migliori, quando fasce più ampie delle popolazioni di quei paesi vorranno godere dei benefici della globalizzazione, si vedrà chiaramente qual è la vera pietra angolare del sistema: l’onnipotenza militare delle forze armate americane.

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