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Il trio di Keith Jarret alla Fenice di Venezia

Venezia, teatro La Fenice, 16 luglio

Keith Jarrett (pianoforte), Gary Peacock (contrabbasso), Jack DeJohnette (batteria): "30th Anniversary Tour"

Era il gennaio del 1983, quando Keith Jarrett incise a New York per la ECM Records i primi due volumi di "Standards", inframmezzati da "Changes", in cui comparivano due composizioni originali. Subito critica ed appassionati percepirono una nuova brillante rilettura di brani popolari che hanno resistito alla prova del tempo, gli "Standards", appunto, fatta dai musicisti con un’abilità ed un affiatamento tali da ricordare il meraviglioso trio "Bill Evans- Scott La Faro- Paul Motian", tuttora insuperabile.

Da allora, abbandonati sia il quartetto americano, che quello europeo, visto il successo ottenuto e la vastità del repertorio cui attingere, il pianista non ha più cambiato direzione, forse pensando, convinto di essere il più bravo, di poter essere anche l’unico in grado di dare nuova linfa sia ai brani dimenticati che a quelli meno o sempre eseguiti. Diventato capriccioso, in virtù del successo ottenuto, e constatato che gli organizzatori delle diverse rassegne accettavano ogni sua imposizione, Jarrett ha perso il rispetto per il pubblico, pur pretendendo da esso il più completo asservimento ai propri umori.

Nel concerto veneziano, che costituiva la seconda di tre date italiane, l’anteprima del "Venezia Jazz Festival", oltre a far parte del cartellone de "Lo spirito della musica di Venezia", proposto per la seconda estate dal teatro La Fenice, il pianista ha dato vita a due set. Nel primo, durato 45 minuti, ha eseguito cinque brani. Nel secondo si sarebbe fermato a tre, aspettando gli applausi e le ovazioni, puntualmente verificatisi, di una platea che non si è lasciata andare a scatti di foto o a riprese video con gli immancabili cellulari. Allora il Maestro ha voluto premiarla.

È ritornato tre volte al proprio strumento, raggiungendo i 68 minuti, per una durata complessiva di 113. Come succede spesso nelle serate dal vivo, il concerto è cresciuto in intensità con il trascorrere del tempo. La prima parte fatica a decollare. DeJohnette appare appesantito, meno brillante e rapido nel commentare le diverse sfaccettature di ogni brano. Nemmeno un blues in sol, "G Blues", il terzo in scaletta, con la comparsa di un ritmo funky, sembra riscaldare l’ambiente. Ci vuole una ballad, "The ballad of the sad young men", il lirismo di Peacock al contrabbasso, le spazzole di DeJohnette, per iniziare a respirare l’atmosfera unica ECM.

Il set si conclude con un altro blues, "When will the blues live", che nel tema di dodici misure, si blocca alla decima, lasciando alla batteria il compito di riempire le ultime due e rilanciare le lunghe improvvisazioni.

Migliore la seconda parte, sia acusticamente che musicalmente. Una lunga introduzione al pianoforte, melodica e cantabile, fa da preludio ad "On green dolphin street", che non si divide in una parte afro ed una swing, secondo un’interpretazione comune a diversi jazzisti, ma mantiene un 4/4 ritmico, che rende godibile l’ascolto. Bellissima la ballad seguente, "It never entered my mind" della premiata ditta Richard Rodgers/Lorenz Hart, dalla quale Jarrett fa uscire quell’aspetto tardoromantico del suo pianismo, che lo contraddistingue.

In "Autumn Leaves", il brano pensato per la conclusione, trova spazio un lungo assolo di batteria. Iniziano i rientri sul palco per i bis. Dopo la ballad strappalacrime "When i fall in love", è la volta della straziante composizione di Billie Holiday "God bless the child", eseguita con lo stesso andamento funky della prima versione, che compare come brano finale dell’album "Standards volume I°".

Il pubblico si scatena ma per il brano del commiato, Jarrett sceglie una ninna nanna, "Once upon a time", "C’era una volta”, la frase d’esordio di molte favole. La sua, musicalmente, a 68 anni continua ancora, come quella di Jack DeJohnette, a 71 e di Gary Peacock, a 78 - del quale è da poco uscito, sempre per ECM, "Azure", un convincente CD in duo con la pianista Merilyn Crispell - che ha inanellato assolo limpidi ed ispirati dando un tocco di poesia ad un repertorio che continuerà ad essere studiato e reinterpretato fino a quando avrà vita la musica Jazz.

Quanto al leader, ha suonato con la consueta passione e brillantezza, alzandosi spesso dal seggiolino ed emettendo frequentemente i caratteristici grugniti, segnale di un’ispirazione finalmente sopraggiunta che avrebbe aperto le porte all’estasi.

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