Il sindacato statunitense di fronte alla nuova presidenza Trump
La vittoria di Trump nelle elezioni presidenziali statunitensi ha avuto innumerevoli commenti ma non molti l'hanno valutata nelle sue motivazioni e nelle sue conseguenze dal punto di vista dei lavoratori.
Malgrado la ripresa di iniziative e l'aumento di credibilità negli ultimi tre anni, i Sindacati statunitensi organizzano oggi solamente il 10% della forza lavoro. La gran parte di essi ha appoggiato il Partito Democratico nelle elezioni del 5 novembre con pubbliche dichiarazioni di appoggio a Harris e Walz ed anche con una campagna elettorale, soprattutto nei cosiddetti Stati in bilico. Solo Sean O'Brien, il presidente del grande Sindacato dei camionisti, si è sottratto all'endorsement, peraltro contestato da una parte della sua dirigenza sindacale. E gli era stato concesso un intervento alla convention del Partito Repubblicano del luglio scorso.
Nelle loro iniziative pro-Harris, i Sindacati hanno definito Trump “un pericolo per la democrazia” e un crumiro; a scab, come scritto sulle magliette di United Auto Workers (UAW) e ripetutamente affermato dal suo leader Shawn Fain. Il quale, inserito in un comitato consultivo della Casa Bianca, ha ingaggiato un persistente duello verbale col candidato del Partito Repubblicano.
La sconfitta di Harris ha trascinato quindi anche i Sindacati in una situazione senz'altro difficile e di fronte ad una necessaria riflessione. Anche perché risulterebbe da varie ricerche che anche una minoranza consistente dei lavoratori sindacalizzati abbia votato per il candidato repubblicano. Sono riemerse allora le grandi perplessità sul programma elettorale dei Democratici, la cui “socialità” era perfino minore delle politiche di Biden; e ciò sebbene la prospettiva della nascita di un Partito dei Lavoratori statunitensi, storicamente discussa, sembra tuttora remota.
I dati elettorali, a causa dei conteggi rallentati in alcuni Stati, dimostrano alcun cose: Trump ha ottenuto infine il 49,97% dei voti (nemmeno il 50%, dunque), la distanza tra i candidati dei 2 principali Partiti è stata di 2,5 milioni di voti, Trump ha ottenuto 2,7 milioni in più di quelli avuti nelle elezioni presidenziali del 2020, mentre Harris ne ha presi 6,9 milioni in meno di quanto ne ricevette Biden. Non è facile però entrare nel merito di altri dati: negli USA il voto è soggetto a registrazione preventiva, per cui dei 240 milioni di potenziali elettori, gli iscritti alle liste elettorali sarebbero 170 milioni e quelli che hanno votato (sommando i voti ai vari candidati) sono 154 milioni. Per cui chi vince le elezioni rappresenta una minoranza dei cittadini (in questo caso, Trump il 32%). Inoltre, a causa del sistema elettorale, che è uninominale per singolo Stato dell'Unione, le elezioni sono state decise in sostanza da 250.000 voti in 3 Stati -Wisconsin (10 elettori presidenziali), Michigan (15) e Pennsylvania (19)-, e cioè dallo 0,18% del totale dei voti espressi, perché negli altri Stati il risultato, o era scontato in partenza, o in altri Stati in bilico lo è stato fin da subito certo coi primi scrutini. Se in alcuni Stati in bilico la campagna di vari grandi Sindacati per Harris potrebbe aver tamponato ulteriori perdite (in alcuni, appannaggio di Trump, la sua vittoria non è stata trionfale: dell'1,8% in Pennsylvania, dello 0,8% in Wisconsin e dell'1,5% in Michigan), gli interi Stati Uniti hanno registrato una svolta a destra. Evidenziata, ad esempio, nella “democratica” New York, nel quartiere di Queens, dove Trump ha preso il 38% dei voti, contro il 22% del 2020. E nel Bronx dove è passato dal 10 al 27%.
Comunque sia, Trump ha consolidato una sempre più variegata area di consenso, all'interno della quale ha confermato la presa delle tradizionali roccaforti operaie del Partito Democratico, falcidiate dalla chiusura degli impianti industriali e dall'impoverimento delle comunità laboriose che vivevano attorno ad esse. Comunità distrutte dagli accordi di libero scambio, decisi o favoriti anche dai Democratici, e private delle sezioni sindacali sul territorio che per decenni erano state un importante luogo di aggregazione ed anche un'isola feconda di solidarietà e di lotta collettiva.
Dopo il periodo in cui Trump le ha “sparate sempre più grosse” (peraltro senza turbare la sua fedelissima base), ora atterreranno le politiche suggerite dall'area di pensatori reazionari che lo attornia: incombe infatti il “Progetto 2025”, stilato dalla Heritage Foundation, che intende estinguere lo Stato (non ovviamente in senso marxista) con l'obiettivo di “un solo uomo al comando”.
Alcune delle variegate interpretazioni della massiccia vittoria di Trump hanno puntato il dito, non solo sul diffuso dissenso al sostegno governativo dello sterminio dei palestinesi, ma anche sulla scarsità o sull'assenza delle politiche sociali di Biden contro l'inflazione, che ha aggredito la capacità di spesa dei lavoratori, molti dei quali inchiodati in salari di povertà. Da ciò, l'opinione che il Partito Democratico, aldilà delle affermazioni di facciata, sia assai distante dai bisogni popolari concreti dei lavoratori, poiché in definitiva i due grandi partiti che si spartiscono gli incarichi istituzionali a tutti i livelli (anche grazie al sistema elettorale ferocemente uninominale) e si dividono gli immensi contributi condizionanti dei finanziatori miliardari, non differiscono poi tanto nelle scelte governative concrete. La suddetta opinione ritiene insufficiente l'appoggio di Biden alla possibilità di sindacalizzazione e ininfluenti le politiche attuate nel quattro anni della sua presidenza, a partire dai 3 grandi piani economici, da 3.500 miliardi di dollari in totale, per sostenere le imprese e i lavoratori durante la crisi Covid e per affrontare i problemi climatici con la produzione di veicoli elettrici ed “energia verde”.
Il socialista Bernie Sanders questi piani economici, peraltro inferiori alle sue richieste, li aveva sostenuti e valorizzati, così come aveva fatto gran parte del Lavoro Organizzato, affermando che Biden era “il Presidente più filosindacale della storia”. Rieletto per la quarta volta al Senato, Sanders ha ora pesantemente criticato la campagna e il programma elettorale del Partito Democratico e richiamato la necessità di un'immediata ripresa delle iniziative sociali, sindacali, ambientaliste sui terreni dell'aumento del salario minimo federale, della difesa dei livelli occupazionali nell'auto nel corso della transizione all'elettrico, del varo del Pro Act (la legge che renderebbe più facile la nascita di un sindacato nel posto di lavoro, alleggerendola del defatigante percorso durante il quale le imprese stanziano milioni di sperimentate azioni antisindacali, appaltate ad aziende specializzate in union busting).
E' improbabile però che questi temi, ristagnanti da anni in Parlamento malgrado le pressioni dal basso, possano essere ripresi dall'Amministrazione di Trump. Si può anzi prefigurare un'ulteriore caduta delle protezioni sociali ed anche dei diritti individuali di un Paese che già ha un'immensa disparità della ricchezza e una grandissima presenza di poveri, di senza casa, di lavoratori con salari da fame, di persone che muoiono perché non hanno copertura sanitaria o di pensione.
Fain, il presidente di UAW, ha rilasciato una dichiarazione post-elettorale in cui sembra rettificare la propria sovraesposizione pro-Harris, dicendo che entrambi i Partiti condividono la colpa per la guerra di classe unilaterale che l’America delle Corporation ha intrapreso da decenni contro il nostro Sindacato e gli americani della classe operaia. E che oggi ci si trova a fronteggiare le stesse cose contro cui ci siamo sempre schierati: avidità corporativa, predatori di Wall Street e un sistema politico che ci ignora.
La domanda che aleggia nel movimento sindacale è se esso riuscirà a sopravvivere alla ventata antisindacale di Trump e a proseguire la recente stagione di mobilitazioni. Musk, l'uomo più ricco del mondo, era stato denunciato dal sindacato UAW al NLRB (l'Ente federale, nato nel New Deal rooseveltiano, che deve tutelare il diritto di sindacalizzazione) a causa della diretta su Twitter (ora X), di cui è proprietario, in cui un farneticante discorso di Trump sulle, di Musk, doti di gran licenziatore nelle sue aziende era stato accolto dal miliardario con visibile soddisfazione. Durante la presidenza Biden e con la nomina a direttore di Jennifer Abruzzo, di provenienza sindacale, il NLRB ha quasi sempre contrastato le politiche antisindacali, anche di grandi imprese come Starbucks e Amazon e delle aziende auto del Sud statunitense (ambiente storicamente ostile alle Union) e aveva anche contestato a Musk alcuni licenziamenti di persone che aveano osato esprimere il loro pensiero sul sessismo e le molestie sessuali nella sua azienda SpaceX.
Non è difficile ora prevedere che Musk, nel suo nuovo ruolo di “ministro dell'efficienza”, proporrà sia il forte ridimensionamento del ruolo delle agenzie federali (come, nel settore del lavoro, il NLRB) che disturbano il ruolo assoluto del Presidente e delle imprese, sia un'ondata di licenziamenti di impiegati pubblici, i più colpiti quando la destra attacca lo Stato sociale. Dipendenti pubblici che, con le loro lotte, anche in presenza del divieto di loro sciopero in molti Stati degli USA, hanno ottenuto significative vittorie a favore del loro lavoro e dell'utenza, raggiungendo una sindacalizzazione del 33%.
Molte grandi imprese si stanno preparando ad approfittare del nuovo clima che sarà ostile al Sindacato. E ciò anche dove contratti significativi sono stati firmati negli ultimi anni, a seguito di lunghi scioperi.
Pochi giorni dopo la firma del contratto di lavoro dei 33.000 lavoratori Boeing dell'area di Seattle (firmato dopo 8 settimane di sciopero, due rifiuti degli iscritti di precedenti intese e il 41% di ancora contrari) Boeing ha consegnato avvisi di licenziamento ai primi 400 dipendenti, prevedendo di tagliare il 10% della sua forza lavoro per “ristabilire i livelli della forza lavoro per allinearsi alla nostra realtà finanziaria”. Non saranno accettate dimissioni volontarie, che comportano l'esborso di una liquidazione. Ciò avviene dopo che l’ex Amministratore Delegato, responsabile del cattivo stato di salute aziendale, se n'era andato con un bonus di 33 milioni di dollari.
Anche nel settore dell'auto, dopo lo sciopero di un mese e mezzo l'autunno scorso e la firma dei tre contratti distinti di General Motors, Ford e Stellantis (ex Chrysler negli Usa), tali aziende, impelagate nella transizione all'auto elettrica (che Trump aborre e potrebbe osteggiare, malgrado Musk ne sia il principale produttore statunitense) hanno prodotto licenziamenti temporanei di centinaia di lavoratori, non in tutti gli Stati coperti dall'indennità di disoccupazione. In Stellantis, i licenziamenti saranno definitivi in alcuni stabilimenti e la produzione dei Dodge Durango potrebbe spostarsi negli impianti canadesi di Windsor, in Ontario. Il previsto sciopero UAW in Stellantis, centrato soprattutto sul mancato rispetto aziendale degli impegni contrattuali di riapertura dello stabilimento di Belvidere (Illinois), sembra bloccato dalla mancata maggioranza di due terzi prevista per dichiararlo, interrotta, dopo l'approvazione in alcuni altri impianti, proprio da quello di Kokomo (Indiana), dove lavorava Fain, ma soprattutto dalla minaccia aziendale di controdenunciare il Sindacato per mancato rispetto dell'accordo con relativa richiesta di danni da mancata produzione. Inoltre i risultati altalenanti della campagna che sta conducendo UAW, con lo stanziamento di 40 milioni di dollari, per sindacalizzare le aziende auto del Sud degli USA (europee, coreane e giapponesi), campagna che ha portato alla vittoria in Volkswagen e alla sconfitta in Mercedes-Benz, sembra aver perso forza e non è escluso venga interrotta.
Il Sindacato statunitense ha quindi oggi un compito arduo ma fondamentale per i diritti individuali e sociali degli Stati Uniti. Troppo, e inevitabilmente per molti solo a causa del sistema elettorale, allineato ad un Partito Democratico che ha lasciato incompiute o irrealizzate molte delle speranze popolari e ha proposto un programma economico elettorale gravemente insufficiente, oggi il Sindacato può essere una delle roccaforti della solidarietà e della lotta sociale e una delle forze aggregative di un blocco sociale che affronti dal basso le urgenze sociali degli Stati Uniti.
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