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 Home page > Attualità > Religione > Il paradosso del diritto all’educazione che diventa diseducazione

Il paradosso del diritto all’educazione che diventa diseducazione

Ancora una volta, in questo caso a Massa, un progetto che ha come obiettivo il contrasto degli stereotipi di genere, rivolto ai bambini delle scuole statali, è diventato oggetto di contestazione. O forse sarebbe meglio dire che è diventato oggetto di strumentalizzazione politica e ideologica, visto che a cavalcare l’onda sono sempre partiti e gruppi di aree ben precise, ertisi a difensori di identità da imporre a tutti. Chi non è d’accordo è elemento di disturbo, pericoloso per quell’ordine sociale che vuole tutti corrispondenti a determinate categorie, oppure collocati ai margini della società e privati del diritto di rivendicare la loro, di identità; tutti cristiani cattolici, gli altri sono strani, e se sono pure atei è ancora peggio; tutti maschi e femmine, gli altri o sono froci o sono amici dei froci, e non è chiaro cosa sia più deprecabile.

Nessuno è omofobo, ma guai a parlarne a scuola perché non si tratta di argomenti per bambini

Ma loro non la pongono mai in questi termini, no. Tutt’altro. La stessa mamma massese che ha ritirato sua figlia dalla scuola, per salvarla dalle maestre che a suo dire volevano inculcarle la “teoria gender”, lo ha detto chiaro all’intervistatore: «Insegniamo ai nostri figli a rispettare tutti, a voler bene, ad aiutare i più deboli, ad essere buoni e misericordiosi». È sempre così, tutti sono contrari a qualunque forma di intolleranza e nessuno è omofobo, ma guai a parlarne a scuola perché non si tratta di argomenti per bambini. Eppure è proprio ai bambini che andrebbe insegnato a non diffidare o temere chi è diverso. Farlo con i grandi non serve a nulla perché avranno già assimilato una certa visione delle cose, e non è affatto detto che sia quella corretta dal punto di vista sociale.

La mamma ha poi aggiunto: «Insegno a mia figlia a rispettare tutti, ma non posso permettere che le si dica che potrebbe, un domani, non essere più donna». A guardare i contenuti del progetto, però, non sembra proprio che a sua figlia si dica questo. Sul banco degli imputati ci sono due fiabe; la prima racconta delle gesta eroiche di una principessa che va a salvare il suo principe dal drago, la seconda di un bambino maschio che desidera una bambola che il padre non vuole regalargli. Abbiamo dunque dei protagonisti maschi che rimangono maschi e femmine che rimangono femmine, solo gli stereotipi vengono ribaltati. Questo vuol dire insegnare a non identificare il proprio genere con il sesso biologico? Ci vuole un bel po’ di fantasia per affermarlo, oltre che una buona dose di disonestà.

E allora forse, come dice la professoressa Biemmi che è direttrice della collana e formatrice nell’ambito del progetto, c’è altro dietro a questa polemica. La curia da una parte, e il sottosegretario Toccafondi dall’altra, pongono l’accento sul diritto costituzionale dei genitori di educare i propri figli e mettono in guardia da eventuali derive “gender”. Lo stesso ha fatto il capogruppo di Fdi nella Regione Marche in riferimento a un’altra vicenda simile in una scuola di Tolentino (MC), richiamando una mozione votata in Consiglio Regionale contro “l’introduzione dell’ideologia gender nelle scuole”. Il solito spauracchio quindi, sempre utile per aizzare le famiglie contro la scuola pubblica e portare acqua al mulino di quella privata. Già, perché guarda caso è proprio in una privata cattolica che la bambina massese è stata iscritta dai genitori, che tra l’altro hanno tenuto a sottolineare di aver affrontato “un notevole sacrificio economico”. Magari una cattolica come quella che a Trento insegna ai bambini che “l’omosessualità è un disordine nella costruzione della propria identità” e che bisogna dunque “accompagnare l’omosessuale perché modifichi il suo orientamento”. Il tutto con il contributo economico dello Stato, ça va sans dire.

La libertà educativa dei genitori può condizionare il ruolo della scuola pubblica?

Intendiamoci: nulla da eccepire sul principio della libertà educativa in sé. È più che giusto, e certamente è piena facoltà dei genitori iscrivere la propria figlia a una scuola con un piano formativo che ritengono valido, ma pare che l’iniziativa della scuola di Massa, che tra l’altro è finanziata dalla Regione e promossa dalla Provincia, fosse presente nel Pof e allora forse il problema è che loro non l’hanno letto. Ma al di là di questo, fino a che punto il principio della libertà educativa dei genitori può condizionare il ruolo della scuola pubblica? Cosa intende di preciso Toccafondi laddove scrive che «il compito della scuola è quello di supportare i genitori nell’educazione, non di sostituirli»? Perché si fa presto a sbandierare degli slogan, ma se questi devono avere come scopo quello di privare la scuola della sua funzione educativa non va affatto bene. La scuola, e prima ancora di essa lo Stato che la istituisce, ha il dovere di educare alla cittadinanza, al rispetto di tutti, al contrasto a discriminazioni e intolleranze. In altre parole, ha il dovere di formare dei cittadini. Altrimenti si sancisce non già un diritto all’educazione, ma piuttosto un diritto alla diseducazione.

Sarebbe interessante, poi, sapere cosa ne pensano Toccafondi, la curia e la famiglia di cui sopra, del fatto che ai genitori non cattolici questa libertà educativa non viene riconosciuta. Il vero insegnamento ideologico presente nella scuola pubblica, infatti, non è l’inesistente “teoria gender” ma è l’invadente “religione cattolica”, che costringe i non cattolici tra scegliere se far comunque frequentare l’Irc ai propri figli, con buona pace dei propri convincimenti, o affrontare l’incertezza di un’alternativa troppo spesso negata. Anche per questo l’Uaar ha chiesto ai parlamentari italiani di rivedere l’attuale normativa, spostando almeno l’Irc in orario extra curricolare. E riconoscere così due diritti in un solo colpo, quello alla libertà di culto o non culto e quello alla libertà educativa. Solo pochi mesi fa Bagnasco si scagliava contro l’inserimento dell’educazione sessuale nei programmi scolastici chiedendo che si svolgesse facoltativamente a al di fuori del monte ore scolastico. Per coerenza, non dovrebbe quindi avere problemi ad accettare lo stesso principio per l’Irc.

Massimo Maiurana

Questo articolo è stato pubblicato qui

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