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Il Pakistan boicotta la Francia: un realistico scontro di civiltà

Il governo del Pakistan ha annunciato che «espellerà l’ambasciatore francese entro due o tre mesi, non nominerà un suo ambasciatore in Francia e boicotterà tutti i prodotti francesi». Una notizia che non sorprende, visto che anche altri paesi “musulmani” hanno minacciato altrettanto. 

 

Sorprende semmai, ma fino a certo punto, che il governo pakistano abbia concordato la decisione con un movimento fondamentalista, i cui facinorosi adepti avevano manifestato in piazza contro la ripubblicazione delle vignette su Maometto da parte del Charlie Hebdo.

In Pakistan la “blasfemia” è punita con la morte. Il governatore cristiano del Punjab Salmaan Taseer, che si batteva per la sua depenalizzazione, nel 2011 è stato ucciso: al suo assassino, diventato una sorta di martire, hanno dedicato una moschea di successo. Qualche settimana fa un giovane pakistano ha accoltellato due cronisti che avevano l’unico torto di trovarsi nei pressi della vecchia sede parigina del Charlie Hebdo: suo padre ha dichiarato che il figlio aveva fatto «un buon lavoro», che lo rendeva «molto fiero». Nei giorni scorsi il manager di una banca è stato a sua volta ucciso da una guardia giurata perché ritenuto “blasfemo”: l’assassino è stato immediatamente festeggiato dalla folla. Secondo un’inchiesta, l’84% della popolazione ritiene giusto che la sharia sia la legge del paese.

E dunque, cosa possiamo mai pretendere, da un paese simile, nato da una separazione dall’India su basi religiose? La cui capitale, creata dal nulla, è stata chiamata Islamabad? Un paese, quindi, che sin dall’inizio si è rivelato incapace di individuare obbiettivi capaci di andare oltre la maschia affermazione della “propria” fede? Islam first. Make islam great again.

Di fronte a un paese del genere, viene spontaneo pensare che uno scontro di civiltà sia già in atto. Quella dello «scontro di civiltà» è infatti una formula di successo lanciata nell’omonimo libro scritto nel 1996 dal politologo Samuel Huntington, che riteneva che al mondo vi siano nove civiltà, destinate giocoforza a restare costantemente in attrito. Una visione conflittuale che, a destra, si tende a semplificare ulteriormente riducendo le civiltà a due: occidente vs islam.

Tuttavia, tanta parte dell’occidente – e in particolare proprio quella che sta a destra – ha molti punti in comune con il fanatismo pakistano. L’occidente è anche don Livio Fanzaga e i Proud Boys trumpiani, come “occidentali” sono e rimarcano di esserlo pure Ungheria e Polonia, che al momento (con le dovute differenze) sembrano voler rappresentare la variante cattolica del Pakistan. Grazie anche alle gerarchie ecclesiastiche, che le sostengono apertamente.

Illiberali sono però anche la Cina “atea”, il Myanmar e la Thailandia “buddhisti”, l’India “induista”, la Russia “ortodossa”. A ben vedere, dunque, anche se quella “islamica” resta in cima nella classifica dell’oppressione, ogni civiltà huntingtoniana ha ancora oggi tanti lati oscuri. Perché, biologicamente, l’uomo è un animale sociale di tipo tribale. Ed è portato a pensare tribale anche quando la propria tribù ha ormai superato il miliardo di membri.

Eppure, in Ungheria e Polonia lottano gagliardamente robuste minoranze laiche. Persino il mondo “musulmano” è attraversato da un movimento laico talvolta clandestino, talvolta cautamente allo scoperto, sempre coraggiosamente impegnato a migliorarlo, quel mondo. Ogni “civiltà” ha al suo interno una dialettica. Tanto che, se veramente si vuole categorizzare l’umanità più realisticamente, si dovrebbe semmai suddividerla tra chi pensa binario («o noi o loro») e chi no.

C’è chi, come A.C. Grayling, ha già descritto la storia del mondo come un continuo alternarsi di periodi di egemonia religiosa e di epoche in cui ha prevalso il pensiero non dogmatico. Salman Rushdie ha a sua volta immaginato un simile, prolungato conflitto nel romanzo Due anni, otto mesi e ventotto notti. Se è in corso uno scontro di civiltà, è più probabile che contrapponga illuminismo e oscurantismo, universalismo e campanilismo, laicità e totalitarismo religioso.

Come in tutti gli scontri, ci sono ovviamente quelli che stanno in mezzo senza schierarsi – perché il mondo non è mai esattamente binario. Non ci sono soltanto i tanti che, comprensibilmente, scelgono il quieto vivere. Ci sono anche coloro che non fanno le scelte di campo che tutti si aspetterebbero. Il mondo è pieno di credenti moderati, che non accettano il totalitarismo religioso.

Benché probabilmente ancora maggioritari, sono a imminente rischio di estinzione: sono accusati di tradimento dai fanatici (di cui sono le vittime privilegiate) e di codardia dai laici. Al punto che, in una società sempre più polarizzata, per l’islam occidentale il tempo è probabilmente già scaduto: la gran parte della popolazione ha ormai perso qualsiasi fiducia in una sua possibile accettazione dei diritti umani fondamentali. Un danno forse non irreversibile, ma che avrà ricadute negative per decenni, se non secoli. Le identità si forgiano soprattutto contro gli altri, e sono più difficili da cambiare delle stesse dottrine religiose.

C’è tuttavia anche un’altra rispettabile categoria che vuole evitare lo scontro, ed è formata da quelle ottime persone che, per esempio, “perdono” tempo con i fanatici cristianisti (Giorello con Sgarbi), o che, sulle vignette del Charlie Hebdo, hanno fatto affermazioni che ponevano l’accento più sull’opportunità di non pubblicarle, che sulla libertà di farlo (Carlo Rovelli, Barbara Spinelli, Amin Maalouf). In una prospettiva laica, disporre della libertà di esprimersi è decisamente più importante del modo in cui legittimamente la si utilizza. Le vignette del Charlie Hebdo potranno non piacere, scioccare, disgustare, ma la difesa del loro diritto di pubblicarle è enormemente più significativa della loro qualità e delle reazioni che possono suscitare. Se non lo si sottolinea, si invia a chiunque un implicito invito ad autocensurarsi.

Il principale problema, per i laici, è la scarsa percezione del pericolo che stanno correndo. È il nostro paradosso di Epimenide: anche noi non-binari siamo costretti a ragionare binario, e ci viene naturale rifiutarlo. Lo si vede da come gran parte della stampa anglosassone descrive la Francia: uno stato razzista nei confronti dei musulmani. Lo si nota dai frequenti silenzi dell’Unione Europea, che nelle relazioni con i paesi illiberali preferisce il business ai diritti umani, anche se è stata proprio la libertà ad aver favorito la sua prosperità economica.

Dobbiamo chiedere di più. E dobbiamo sforzarci di far capire che l’estremismo oscurantista non ama fare prigionieri. Perché, come ricordava en passant proprio Huntington, «l’opposizione laica è più vulnerabile alla repressione di quanto lo sia l’opposizione religiosa». La tragica storia dei paesi “musulmani” degli ultimi quattro decenni ce lo insegna sin troppo bene. Come ce lo insegna la catastrofica conferenza di Monaco del 1938, che srotolò un tappeto rosso al nazismo.

Estrema destra o fanatismo religioso, qualunque sia il totalitarismo, è sempre meglio intervenire per tempo, prima che ci renda incurabili.

Raffaele Carcano

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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