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I giovani di fronte alla guerra

Nella presunzione di parlare di storia, di spiegare le cause occasionali e remote degli eventi, la parola guerra ricorre frequente con i giovani alunni, a volte sonnacchiosi e distratti, altre interessati, ma, pur sempre parzialmente, ad eventi isolati, a squarci di un tempo che è stato.

di Maura Melissano

Attualmente, però, è tutto diverso: a poco più di due mesi dall’inizio di un conflitto che ci coglie impreparati, ma inaspettato non è o forse non dovrebbe esserlo, giovani menti adolescenti chiedono, si informano, dibattono. Scopro un mondo giovanile che mi stupisce per interesse, partecipazione, capacità di dialogo attorno ad un tema che mai avremmo voluto di tale pungente attualità. A scuola si parla di guerra perché, superare le iniziali manifestazioni, si sente pressante la vicinanza, si tocca con mano accogliendo compagni nelle classi o nelle case, il dramma di fronte al quale si tacciono le parole e il silenzio, merce rara tra i banchi scolastici, diventa espressione spontanea e compartecipe, assistendo a questa abominevole ed insensata follia.

È la didattica delle cose, la concretezza pragmatica che il mondo mediatico svela in tutta la sua crudezza e a cui occhi giovani e puliti, certamente ancora scevri dall’orrore e dalla violenza, non possono e non devono abituarsi. Troppe volte abbiamo ripetuto loro che la storia insegna, ma adesso non sembra che la lezione del passato giovi a qualcosa. Di questi eventi ci facciamo, allora, spettatori e cronisti, ne seguiamo l’evolversi in tempo reale ed insieme ci interroghiamo, rimanendo in punta di piedi sul confine delle possibili prospettive. Da questi avvenimenti ci è dato capire che quanto tocca le corde delle emozioni, quanto accomuna ed abita i sentimenti profondi di ragazzi ed insegnanti, ha trovato di nuovo, dopo i giorni più oscuri dell’epidemia, il comune denominatore di una ricerca condivisa.

Ricerca di cause, di risposte, ma soprattutto di cambiamento. Questo evento ha aperto le menti ad una reale consapevolezza, ha toccato quanto di più doloroso ed indicibile la guerra porta con sé: morte e devastazione e parole che ad esse strettamente si legano, lasciando sbigottiti ed increduli nell’assistere ad una parabola discendente di violenza, di ladrocinio, di oltraggio e, diremmo, di ferinità. È lo spettacolo di un’umanità violata, tradita, calpestata, di una volgarità abbrutita oltre l’immaginazione, di uno scempio esibito nell’ostentazione di quella che si crede essere superiorità, ma è di fatto delirio di onnipotenza.

Nelle nostre classi sono presenti, sia pure in piccoli numeri, alunni russi e ucraini, alcuni naturalizzati da tempo, altri giunti in questa fase di emergenza, come rifugiati. Spesso in alcuni di loro, in relazione alla propria provenienza, albergano sentimenti di ritrosia, di timore, di preoccupazione. In qualcuno serpeggia sotterraneamente l’idea che l’appartenenza possa segnarne uno stigma ed essere perciò limite ed ostacolo alla reale integrazione. Proprio in quest’ambito è opportuno avviare una riflessione e giocare la partita di un’inclusione reale e non solo teorizzata, poiché i ragazzi che ben avvertono tutto questo, si rendono spesso promotori di accoglienza autentica e sono capaci di intessere facilmente nuove relazioni e tracciare percorsi di pace. Infatti sul fronte di guerra, come recita una canzone ben nota l’umore è lo stesso, anche se cambia una divisa: l’animo, i sentimenti, il dolore, l’impotenza sono gli stessi. L’invasione decisa a tavolino dai “grandi” è l’obbligo dei più giovani, ignari e inconsapevoli, armati frettolosamente, costretti ad una violenza di cui è perorata una causa che, come in tutte le guerre non può giustificare gli eventi e nel giudizio dei posteri, ma già da ora nell’opinione dei contemporanei, esprime solo la volontà di potere, gli interessi economici e parallelamente il crollo di qualunque ideale. Due popoli che avrebbero dovuto parlare la stessa lingua sono l’uno contro l’altro, qualunque dichiarazione di pace che possa venire farà i conti con i lutti, le ferite profonde, le insanabili ostilità, i rancori difficili da sopire, i preconcetti durissimi da superare. Poco importa se la guerra che vogliamo ancora credere circoscritta, ma dubitiamo non possa espandersi, vedrà una ratifica di accordi siglati su di un pezzo di carta. Le lacerazioni che ne conseguono richiedono una cura profonda del cuore, un ascolto durevole, un’attitudine alla riscoperta ed al rispetto dell’altro, esigono un cambiamento di prospettiva e la volontà di divenire realmente costruttori di pace.

Foto Pexels

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