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"Guarire dall’omosessualità": riparare ciò che non è rotto

Ancora oggi c’è chi promuove terapie di conversione, che pretendono di “guarire” dall’omosessualità. Non solo sono pratiche antiscientifiche, ma anche discriminanti e vessatorie: i danni provocati sono pesantissimi. Perché l’omosessualità di certo non richiede delle cure. Ne parla Paolo Ferrarini sul numero 1/2022 della rivista Nessun Dogma.

La scienza ha fatto la sua parte: in un esemplare caso “Kuhniano” di quanto possa essere figlia del suo zeitgeist, ha provato a intervenire sul desiderio omosessuale prima ancora di comprendere i meccanismi del desiderio sessuale in generale, producendo danni e sofferenze in nome del paradigma che vedeva nell’omosessualità un male da curare a prescindere. Come dimenticare i letali trapianti di testicoli etero in soggetti gay dell’endocrinologo Eugen Steinach, l’olocausto di persone entusiasticamente lobotomizzate in serie col rompighiaccio da Walter Freeman, le torture elettroconvulsive che hanno fatto vivere scenari da Arancia Meccanica a sfortunati omosessuali del secolo scorso? C’è voluto fin troppo tempo, e Stonewall, perché quel tragico capitolo della storia della medicina si chiudesse definitivamente, nel 1973, con il depennamento dell’omosessualità dal manuale dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association: un evento epocale, profondamente simbolico, che sanciva la riconciliazione della scienza e della storia con la realtà che il desiderio per lo stesso sesso non è una deviazione, né una malattia, ma semplicemente una fra le molteplici possibili declinazioni della sessualità umana.

Certe pessime idee, purtroppo, calzano così a pennello con determinate mentalità e visioni del mondo, che anche dopo essere state scartate dalla scienza vengono opportunisticamente ripescate dal bidone della spazzatura e riciclate con successo sotto forma di pseudoscienza. L’idea di “conversione”, per esempio, è particolarmente congeniale alla dottrina evangelical, dove centrale è la metafora della “rinascita”, intesa come rinascita spirituale, rinascita in Dio: un’esperienza profondamente emotiva in cui un adepto accetta Gesù, rinunciando a una vita di peccato per entrare con lui in un rapporto personale, percepito come letteralmente interattivo. Postulata quindi la natura intrinsecamente peccaminosa dell’omosessualità, ha una sua logica per chi voglia aderire a quel credo – e soprattutto voglia essere accettato da quella comunità – ritenere che sia necessario neutralizzare il conflitto con le proprie inaccettabili pulsioni per diventare a tutti gli effetti un “reborn christian”.

Intercettando l’enorme potenziale di questo diffuso “bisogno” fra i protestanti americani, nasce a fine anni ’70 Exodus, un cartello di organizzazioni cristiane che propongono, attraverso la guida di leader religiosi, counselor e gruppi di supporto, di «aiutare coloro che desiderano limitare i propri desideri omosessuali», nella genuina convinzione che attraverso la preghiera e con tecniche di manipolazione psicologica e comportamentale sia possibile riorientare l’attrazione da un genere all’altro.

La teoria, raccapricciante ibrido di dogma religioso e psicanalisi à-la-carte, è a grandi linee la seguente:

– L’interpretazione letterale e infallibilista delle scritture non ammette altra dimensione per l’omosessualità che il peccato, la perversione del disegno divino manifestato nella famiglia etero con pargoli (tanti pargoli!).

– Non esiste, quindi, che Dio abbia fatto un omosessuale a sua immagine e somiglianza, né che Gesù possa accettare e amare una persona omosessuale per quello che è.

– La definizione operativa di omosessualità riguarda soprattutto gli aspetti esteriori, visibili e tangibili, del comportamento delle persone, dall’espressa mascolinità o femminilità – tratti concepiti nel modo più essenzialistico immaginabile – al cosiddetto stile di vita: frequentazione di altre persone omosessuali, bar e discoteche gay, promiscuità sessuale collegata pregiudizialmente ad altre forme di sballo come l’alcol e le droghe. (Minore enfasi è posta sul desiderio stesso, in parte perché difficilmente rilevabile e misurabile come parametro per il successo della terapia, e in parte perché vari “ex gay” leader dell’associazione, che vantavano matrimoni felici e figli, potevano nascondere dietro questa ambiguità – spoiler alert – il fatto di essere in realtà omosessuali repressi, come hanno poi confessato, una volta fuoriusciti dall’associazione).

– Se uno è finito su questa strada, che non è quella tracciata o voluta da Dio, significa necessariamente che a un certo punto nell’infanzia dev’essergli successo qualcosa di traumatico, un abbandono, o più probabilmente un abuso sessuale, che ha generato paura/ansia/sfiducia/rifiuto nel rapportarsi col sesso opposto. Se uno non ricorda niente del genere è solo perché la mente, per elaborare i traumi subiti, li rimuove dalla memoria.

– Attraverso attività studiate per plasmare il carattere (giocare a calcio per i ragazzi, truccarsi per le ragazze), e lavorando su questi fantomatici traumi infantili con varie tecniche di analisi e umilianti sessioni di confessioni pubbliche, è possibile essere liberati dallo stile di vita in cui si è rimasti “intrappolati”, imparare a tenere in scacco il desiderio omosessuale e a coltivare, partendo da un rapporto di amicizia, quello per un partner di sesso opposto con l’obiettivo finale di crearci una famiglia.

La simbiosi mutualmente vantaggiosa con il mondo della psicanalisi avviene per opera di compiacenti analisti cui le parrocchie cominciano a mandare clienti, generando un cospicuo giro d’affari. Il più noto teorico e praticante dei metodi di riorientamento è il famigerato Joseph Nicolosi (morto nel 2017), cofondatore della Narth (National Association for Research and Therapy of Homosexuality). In spregio alle evidenze scientifiche e al consenso della comunità sulla pericolosa natura delle terapie riparative, Nicolosi diffonde, attraverso pubblicazioni molto influenti in certi ambienti, l’idea che la condizione omosessuale possa essere vissuta soltanto in un quadro di egodistonia, come risultato di uno sviluppo imperfetto, immaturo, della sessualità. Lavorando sulle dinamiche familiari all’origine di questa supposta devianza, egli ritiene sia possibile per i suoi pazienti rientrare in contatto con la perduta autentica natura eterosessuale.

A un certo punto, però, bisogna fare i conti con la realtà, quella cosa con cui la scienza si sforza di tenersi in contatto, e la realtà ha notoriamente la caratteristica di imporsi a dispetto di qualsiasi fantasia o mistificazione, in modo particolarmente prorompente quando riguarda le pulsioni più forti e fondamentali dell’essere umano. Gli studi sull’efficacia, o meglio futilità, delle terapie di conversione non hanno fatto altro che riaffermare l’ovvio, ossia che dall’omosessualità non si guarisce. Non esistono evidenze se non aneddotiche, basate su semplici dichiarazioni di sedicenti e ideologizzati ex-gay, circa il successo di questi interventi. La vera prova del nove, il test di eccitazione fisica nei confronti del sesso opposto, non l’ha di fatto mai superato nessuno dei “convertiti”. Per contro, i danni provocati alle persone sottoposte a trattamento (chiamarla “terapia” è paradossale, trattandosi di procedure che, lungi dal curare, introducono e acuiscono difficoltà negli individui) sono pesantissimi, amplificati dal fatto che i pazienti sono per la maggior parte soggetti molto giovani, in una delicata fase di sviluppo, magari bisognosi di accettazione, del sollievo di regole chiare, ma spesso semplicemente coartati dai genitori. Si parla di aumentato rischio di depressione, ansia, abuso di droghe, ragazzi che finiscono a vivere in strada. Un rapporto del Williams Institute alla Ucla School of Law ha evidenziato che circa il 7% della popolazione Lgb negli Stati Uniti (un’enormità) ha fatto esperienza di terapia di conversione, e che questo gruppo di persone ha statisticamente quasi il doppio delle probabilità di contemplare o tentare il suicidio.

Ecco perché gli ex dirigenti di Exodus – gli originali poster boys da cui discendono imbarazzanti versioni localizzate come Luca Di Tolve – convivono oggi, oltre che con partner dello stesso sesso, con il senso di colpa per avere del sangue sulle loro mani. Il declino dell’associazione in effetti è iniziato quando diversi sopravvissuti si sono fatti avanti per rinfacciare loro gli abusi e le sofferenze cui li hanno sottoposti, riportando in particolare il profondo senso di inadeguatezza e colpevolezza che provavano per non riuscire a estirpare il desiderio e raggiungere la perfezione dei leader che prendevano a modello. In seguito all’emergere di queste testimonianze e denunce, l’associazione ha dovuto scusarsi pubblicamente per le tossiche falsità che ha promosso per trent’anni, ed è stata sciolta nel 2013, segnando la fine dell’età dell’oro delle terapie di conversione, ma assolutamente non la loro storia, che continua su iniziativa di singoli gruppi di irriducibili, come Living Hope.

Se il brand americano di terapie di conversione si limita sostanzialmente a forme più o meno light di tortura psicologica, le cose possono prendere una piega più cruenta in altre parti del mondo. In Sudafrica, per esempio, l’approccio militaristico di un famigerato campo estivo per la formazione a un’idea fascista della virilità è degenerato criminalmente fino all’omicidio, nel 2011, quando il quindicenne Raymond Buys è stato restituito alla madre in fin di vita, denutrito, con più di 60 ferite sul corpo, fra cui costole e un braccio rotti, bruciature da scossa elettrica, le punte delle orecchie tagliate e danni cerebrali, cui non è sopravvissuto. Dal processo, è emerso che le pratiche “educative” in questi programmi includevano forme estreme di bullismo omofobico e violenza fisica, somministrate proporzionalmente alla fragilità dei soggetti. Buys era stato brutalmente picchiato per la sua debolezza, incatenato al letto, lasciato senza cibo e acqua, e sadisticamente forzato a ingerire le proprie feci.

Nel caso specifico del Sudafrica storie come questa hanno impresso il marchio del doloroso passato dei lager boeri, ma non bisogna dimenticare che, nel doloroso presente, il resto del continente continua a essere preda della selvaggia colonizzazione del fondamentalismo evangelical, con tutto il suo apporto di omofobia, qui nemmeno mitigato da leggi di civiltà. In un mondo alla rovescia, secondo l’agenda politica dominante in molti di questi paesi, il prodotto d’importazione occidentale da cui difendersi per salvaguardare le proprie radici culturali non sarebbe il cristianesimo, bensì l’omosessualità, dipinta come demoniaca perversione dell’”uomo bianco”. Non stupisce allora che un rapporto di Open Democracy abbia portato alla luce, in almeno quattro paesi dell’Africa orientale, un fiorente mercato legato alle terapie di conversione, cui si accede in modo relativamente semplice attraverso ospedali, cliniche, centri di ascolto e counseling. Reporter sotto copertura e interviste alle vittime hanno esposto disturbanti pratiche come la somministrazione anche a tradimento di farmaci (inclusi sonniferi per prevenire masturbazioni notturne), ipnosi, ormoni atti a sviluppare i tratti del genere target, incontri forzati con membri del sesso opposto e – intramontabile classico – l’elettroshock.

Un aspetto che vale la pena sottolineare è che i costi anche ingenti per l’accesso alle terapie di conversione, soprattutto nei paesi del mondo con maggiori disparità sociali, limitano spesso il fenomeno alle classi più abbienti. A Nairobi, per esempio, un programma di tre mesi con soggiorno in clinica offerto dal centro riabilitativo Foundation of Hope costa più di 20 dollari al giorno, in un paese dove un terzo della popolazione vive con due dollari al giorno. Ciò non significa che nei contesti più poveri la comunità Lgbt+ sia del tutto immune alla barbarie. Per chi non se lo può permettere, infatti, le terapie di conversione “dei poveri” assumono la forma di pratiche folkloristiche come gli esorcismi. In Indonesia, dove si crede che l’omosessualità e il transgenderismo siano disturbi mentali dovuti all’influenza di spiritelli chiamati “jinn”, o “geni” – la cui esistenza è certificata dal Corano stesso – è in voga la pratica della ruqyah, un rituale di guarigione che l’islam shafi’ita considera permissibile e che negli ultimi anni è stato popolarizzato da una serie di reality show sulla tv generalista. Alcuni episodi sono dedicati proprio a personaggi gay o transgender. Gli esorcismi consistono solitamente nel leggere versetti del Corano percuotendo il malcapitato con un manico di scopa per far uscire il demonietto femminile, che si ritiene entrato nel corpo maschile a causa di un incidente o di un trauma del passato.

Nel mondo cattolico, le terapie di conversione rimangono tutto sommato un fenomeno marginale, o underground, grazie anche al fatto che la Chiesa, a differenza dei fondamentalismi americani, preferisce saggiamente schivare imbarazzanti impatti con la realtà restando ambigua sull’applicazione pratica delle proprie dottrine, evitando quindi trappole pseudoscientifiche come la conversione all’eterosessualità per promuovere concetti più intangibili come la castità. Probabilmente gioca un ruolo anche il timore di dover affrontare nuove costose cause legali, in aggiunta a quelle già in corso per gli abusi sessuali del clero. Non è un caso che recentemente, in Spagna, la Chiesa abbia per la prima volta preso ufficialmente le distanze dalle terapie di conversione, dopo che nel 2019 si è scoperto che l’arcidiocesi di Alcalá de Henares, nei pressi di Madrid, offriva corsi clandestini per il riorientamento del desiderio omosessuale, programmi messi esplicitamente al bando dalle leggi antiomofobia della regione, con sanzioni previste fino a 45.000 euro.

La diffusione di queste pratiche in Europa è quindi forse maggiormente ascrivibile alla sempre più marcata dimensione politica che negli ultimi decenni, dagli Stati Uniti in giù, ha assunto la crociata contro l’omosessualità. Il panico morale che ha dominato il discorso politico negli anni più bui dell’epidemia di Aids è mutato col tempo nella paranoia cospirazionista secondo la quale l’agenda liberal avrebbe fra i suoi obiettivi la distruzione della famiglia tradizionale, portando via i bambini ai genitori, pervertendoli e indottrinandoli a forme alternative di sessualità attraverso la cosiddetta ideologia del gender. Questo tipo di ansie, per quanto palesemente assurde, trovano terreno fertile per diffondersi negli ambienti conservatori e populisti di tutto il mondo. In questi contesti, come in Italia, le terapie di conversione possono sfuggire per lo più ai radar, ma esistono senz’altro come sottoprodotto della stessa omofobia politica che si esprime nella febbricitante opposizione al matrimonio egalitario, o al ddl Zan.

La cosa che più stupisce e amareggia è che, a oggi, solo pochissimi stati abbiano legiferato per vietare queste pratiche condannate categoricamente dalle principali associazioni di salute del mondo, e che l’Onu ha definito «immorali, non scientifiche, inefficaci e, in alcuni casi, equivalenti a tortura». Il Canada e la Francia sono gli ultimi due paesi ad aggiungersi di recente a una élite che include Malta, Brasile, Taiwan, Ecuador, Argentina, Cile, Uruguay, India e Germania. Altre forme di divieto esistono poi a livello regionale (singoli stati o città), come negli Usa, in Australia, o in Spagna. In Italia, un disegno di legge proposto da Sergio Lo Giudice nel 2016 è decaduto senza arrivare a discussione in aula, perché non c’è abbastanza attenzione sulla questione, che non è considerata, come recita il mantra degli omofobi, “una priorità”.

Forse a queste persone andrebbe fatto presente che uno studio dell’American Public Health Association ha stimato che il pregiudizio antigay nella popolazione eterosessuale è correlato a una riduzione dell’aspettativa di vita di 2.5 anni: dall’omofobia, con le giuste terapie, non solo si può, ma conviene guarire.

Paolo Ferrarini

Approfondimenti

Pray Away: https://bit.ly/3f917KR

Boy Erased: https://bit.ly/3zIs7tT

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