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Gorbaciov, l’ultimo uomo del Novecento

Con la morte di Mikhail Gorbaciov, ultimo leader della storia dell’Unione Sovietica, possiamo dirlo: il Novecento è finito per sempre. Secolo lungo, tanto da confutare Eric Hobsbawm, la cui onda lunga giunge fino a noi, come dimostrato dalla tragedia della guerra in Ucraina che ne sconvolge gli ultimi capisaldi, il Novecento ha avuto in Gorbaciov una figura di riferimento importante nell’epoca della fine della Guerra Fredda.

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E il tourbillon di emozioni e dibattiti che la morte del 91enne ex segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica ha suscitato fa capire quanto, soprattutto quando si parla di Paesi come la Russia, il passato sia sempre presente. La storia sempre in movimento. Le passioni sempre pronte a influenzare la realtà. In questo contesto, Gorbaciov spicca come grande incompreso. In Occidente, figura banalizzata di cui spesso si parla del ruolo come “rottamatore” dell’Unione Sovietica. In Russia, nonostante tutti gli errori e le ingenuità dei suoi sei anni di mandato (1985-1991) Gorbaciov è invece ritenuto il responsabile di quella che Vladimir Putin ha definito “la più grande catastrofe geopolitica” del Novecento, lo sfaldamento dell’Unione Sovietica nel biennio seguito alla caduta del Muro di Berlino. Processo che, visto storicamente, pochi leader avrebbero potuto invertire e di cui i veri responsabili ultimi furono gli inguaribili reazionari che nell’agosto 1991 tentarono il golpe contro Gorbaciov, che solo quattro mesi dopo si sarebbe infine dimesso. E che ebbe come co-responsabile nientemento che Josif Stalin, fautore di quella politica delle nazionalità che contribuì a creare le repubbliche autonome uscite dal controllo di Mosca nel caldissimo 1991.

Gorbaciov, ultimo uomo del Novecento, è incompreso perché sostanzialmente passerà alla storia come uno sconfitto. Non c’è disonore in questo dato: Annibale, Costantino XI di Bisanzio, Napoleone Bonaparte, per fare alcuni nomi, furono in ultima istanza sconfitti nei loro propositi e nelle loro azioni. La definizione di “sconfitto” riferito a Gorbaciov si riferisce al fatto che i tre grandi momenti e le tre grandi proposte della sua carriera politica furono, nel corso degli anni troncate dal flusso inesorabile della storia.

La prima grande sconfitta di Gorbaciov fu il 9 novembre 1989, giorno della caduta del Muro di Berlino. Un mese prima, visitando Eric Hoeneker a Berlino Est in occasione dell’anniversario della fondazione della Ddril presidente sovietico ebbe a dire, a mò di ammonimento all’anziano collega, che “il pericolo grava su chi non reagisce al mondo reale” aggiungendo che “se ci si muove nella corrente del mondo reale, della società che si sta muovendo, se si usano questi principi per plasmare la propria politica, allora non ci sono motivi di temere difficoltà. Non c’è niente di strano in questo”. Il riferimento era alla necessità di introdurre riforme graduali per democraticizzare i sistemi socialisti così da dar loro una seconda chance, soprattutto coinvolgendo dal basso i lavoratori e le organizzazioni partitiche che si andavano formando in tutto il blocco sovietico. La “primavera dei popoli” seguita alla caduta del Muro, accelerata proprio dal dirompente discorso di Berlino Est, accelerò però la fine del socialismo reale. Con punte rivoluzionarie, come accaduto nella Romania di Nicolae Ceaucescu, tra i destinatari delle parole di Gorbaciov, processato e fucilato nel giorno di Natale del 1989.

E proprio il Natale del 1991 sancì la seconda grande sconfitta di Gorbaciov. Quel giorno, con le sue dimissioni dalla presidenza e dal Pcus, finiva ufficialmente la storia del potere sovietico inaugurata da Vladimir Lenin. Poche settimane prima, l’8 dicembre 1991 i capi degli stati di Russia con Boris El’cin e Gennadij Burbulis, Ucraina con Leonid Kravčuk e Vitol’d Fokin e Bielorussia con Stanislaŭ Šuškevič e Vjačeslaŭ Kebič avevano firmato a Belavežskaja pušča l’Accordo di Belaveža, il trattato che sanciva la dissoluzione dello Stato sovietico. La dissoluzione fu ufficialmente confermata il 26 dicembre dello stesso anno, dal Soviet Supremo. Gorbaciov non sopravvisse al potere alla decisiva ed estrema ribellione di comunisti “conservatori” e nostalgici dell’autocrazia sovietica che avevano tentato il colpo di Stato il 26 agosto precedente, inizio della fine dell’Urss. Finì così l’ultimo tentativo di preservare l’unità del Paese, già minato dalle secessioni dei Paesi baltici e centroasiatici, frustrato proprio da El’cin, che negli anni successivi avrebbe guidato da presidente la Russia nel buio periodo del Far West economico e del default. Il presidente uscente, come ha ricordato Paolo Mauri su Inside Over, si stava apprestando “a siglare il nuovo patto federativo dell’Urss che, di lì a poco, avrebbe mutato la propria denominazione ufficiale da Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche in quella, presumibilmente, di Unione degli Stati Sovrani, per cercare di mantenere unite quelle repubbliche più prossime a Mosca a fronte della fine del Comecon e del Patto di Varsavia – che rese indipendenti i Paesi dell’Europa Orientale”. Nei suoi piani “non c’era affatto la fine del sistema comunista, ma la sua trasformazione in un socialismo aperto, come poi fece la Cina”.

L’ultima e forse più grande sconfitta di Gorbaciov è andata però in scena il 24 febbraio 2022, con l’invasione russa dell’Ucraina. L’improvvida mossa di Vladimir Putin ha realizzato la fine, forse inesorabile, del grande sogno post-Guerra Fredda di Gorbaciov: quello di una “casa comune europea” presentato nel luglio 1989 all’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa. Gorbaciov scelse l’assemblea in quanto luogo simbolico dei valori democratici, per dichiarare chiusa, il 6 luglio 1989, l’era della Guerra Fredda e chiedere fiducia verso il ‘nuovo pensiero’ elaborato da lui insieme ai ministri Alexander Yakovlev e Eduard Shevardnadze, in sostanza una svolta in senso democratico e pacifista. Il concetto centrale, che subito fu raccolto dalla pubblicistica, fu quello di una “casa comune europea”. Nell’articolarne i contenuti, il presidente sovietico mise l’accento soprattutto sugli aspetti di sicurezza: la riduzione delle spese militari, delle forze nucleari e di quelle convenzionali, il ritiro di tutte le truppe stazionate sul territorio di altri Paesi, lo smantellamento dei blocchi, la rinuncia alla gara nelle tecnologie militari, un graduale avvicinamento all’obiettivo della piena denuclearizzazione. 

La visione di una ‘casa comune’ delineata da Gorbaciov contemplava anche l’abbattimento delle barriere commerciali e la cooperazione economica, scientifica, tecnologica e culturale. Ma più significativa è l’affermazione che il nuovo ordine dovesse “porre in primo piano i valori comuni europei“. Tra cui lui, ateo e materialista, non mancò di indicare anche i valori spirituali poi dimenticati, in sede europea, nella discussione per la Costituzione Europea tramontata nel 2005. Gorbaciov, rispettoso verso Lech Walesa e Giovanni Paolo II, capì l’importanza delle comuni radici cristiane per porre le basi di un dialogo serrato tra Mosca e l’Europa occidentale.

Era la rottamazione della tesi del dualismo fra una democrazia borghese e una democrazia socialista, e della dottrina della ‘lotta ideologica’ e sulla base della quale si erano sempre giustificate nella Guerra Fredda le barriere al libero flusso di idee e pubblicazioni.

Può sorprendere che Gorbaciov ribadisse allo stesso tempo lo schema dei due sistemi economico-sociali, quello socialista e democratico e quello capitalista, in competizione fra loro; e ciò proprio mentre all’altro estremo Francis Fukuyama, nel suo saggio su ‘la fine della storia’, proclamava la fine di ogni valida alternativa al sistema liberal-democratico.

Gorbaciov perorava l’abbraccio tra Europa e Russia come baricentro della pace mondiale. E nei trent’anni seguiti all’uscita dal potere, i trent’anni della grande incomprensione e degli errori reciproci tra Russia e Occidente, non ha mai mancato di denunciare ogni tentativo di piegare questa prospettiva. Senza risparmiare critiche a nessuno. “Ho l’impressione che qualcuno pensi di poter costruire un nuovo ordine mondiale, l’ordine del dopo guerra fredda e del post comunismo, senza prendere in considerazione i diritti dei singoli Paesi. Se non si tengono in considerazione documenti e accordi sottoscritti a livello internazionale, non ci si può aspettare altro che il caos”, dichiarò Gorbaciov in visita a Brescia nel maggio 1999, nei giorni dell’attacco Nato alla Jugoslavia. “Fate di tutto per fermare Putin”, disse a inizio marzo, conscio di quanto l’attacco russo, da lui temuto fin dall’inizio della crisi russo-ucraina dal 2014, significasse in termini di divisione dell’Europa e delle prospettive geostrategiche per il Vecchio Continente. In una notte, l’intero processo di dialogo compreso tra la svolta di Pratica di Mare del 2002 e la costruzione della GeRussia da parte di Gerhard Schroeder e Angela Merkel col dialogo serrato con Vladimir Putin è stato incenerito, divenuto lettera morte. E ora sul mondo, proprio per l’allontanamento della prospettiva di una casa comune europea, pende l’ombra del conflitto generalizzato. Prospettiva inquietante per l’uomo del Trattato Inf concluso con Ronald Reagan e del ritiro sovietico dall’Afghanistan. Gorbaciov, con limiti, ingenuità e errori, è stato indubbiamente uomo di pace. E questo gli va riconosciuto: in un’era in cui il pallino del gioco è passato in mano agli sceriffi col grilletto facile la prospettiva di immaginare come obiettivo politico la pace manca all’elite europea, occidentale come orientale. E i leader prendono scelte che stanno, inesorabilmente, condannando il Vecchio Continente alla minorità e al declino.

Foto Wikimedia

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