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Un’Italia su cui scommettere. Nonostante tutto

Resta soprattutto, dopo tutto e nonostante tutto, un'Italia su cui si può ancora scommettere.

Resta una orribile classe politica, la peggiore dell’occidente, fatta di cialtroni ed incompetenti i cui limiti sono stati messi allo scoperto dalla crisi: una classe politica che è tutta berlusconiana, nei modi e nella comunicazione, ormai anche a sinistra; capace solo di esprimersi con slogan ed aforismi, incapace di elaborare programmi e strategie e di spiegarli agli italiani.

Capacissima di arroccarsi a difesa dei propri privilegi, ma non di esprimere una personalità, anche una soltanto (Giorgio Napolitano, cimelio preziosissimo di un’altra epoca, esula da questo discorso) che gli italiani possano tutti, d’accordo o no che siano con le sue idee, considerare rispettabile.

Resta un sistema informativo che è pure il peggiore d’occidente; tanto invischiato con la politica da esserne indistinguibile. Un giornalismo che è pessimo ovunque, non solo dentro le televisioni, e che non esprime più una sola voce che possa dirsi autorevole; un solo commentatore di cui si possa attendere con ansia l’articolo.

Un esempio fuori dal circo delle televisioni? Pensate al Corriere della Sera, che ospitò Flaiano e diede casa agli Scritti Corsari di Pasolini, per non parlare delle corrispondenze di Montanelli o delle collaborazioni di Montale, e dalle cui colonne tuona ora le proprie banalità il poderoso Angelo “Piumino da Cipria” Panebianco.

Restiamo noi italiani, anagraficamente vecchi e culturalmente arcaici; arroccati nel nostro familismo, gelosi custodi dei nostri minimi privilegi, convinti di poter competere nel mondo di domani conservando una società divisa in gilde e corporazioni. Restiamo noi con tutte le nostre debolezze, la nostra scarsissima autostima ed il nostro sempiterno amore per le scorciatoie. Con la nostra inveterata anarchia, propria di sudditi che sfuggono l’autorità; assurda per dei cittadini che dovrebbero sapere d’essere, in prima persona, la fonte di ogni autorità.

Ei fu; tutto il resto resta, e io festeggio.

Perché, appunto, restiamo noi gli italiani, già capaci di trasformare quattro rocce infilate in mezzo al Mediterraneo nella quinta potenza industriale del mondo. Restiamo noi, capaci di produrre, da millenni e benissimo, di tutto; capaci di andarcene a piedi alla corte del Gran Cane o di prendere un aereo per chissà dove, senza magari sapere più di tre parole d’inglese, per vendere le nostre cose.

Restano i nostri giovani che si ostinano a studiare e lavorare nonostante tutto, e che magari emigrano quando scoprono che tutte la partite sono truccate ed i giochi già fatti; restano i nostri operai che lavorano le ore più lunghe e meno pagate del mondo sviluppato e restano quelli, tra i nostri imprenditori, che nell’azienda ci mettono la casa.

Perché resta, a fianco dell’Italia dei protetti, quella degli esposti; di coloro che hanno dovuto affrontare la concorrenza internazionale senza aiuti e ce l’hanno fatta. Perché resta un’Italia del mondo del lavoro che, in una simile congiuntura, ha migliorato le proprie quote sui mercati internazionali e mantenuto intatto, in buona sostanza, un potenziale industriale che è secondo in Europa solo a quello tedesco.

Perché ci restano tutte le risorse umane e morali di un grande paese. Perché resta tra tanti italiani una smisurata voglia di fare che trova il proprio limite solo nell’assoluta incertezza del presente; nelle restrizioni di una società, prima ancora che di un mercato, ingessata, dove il credito, non solo finanziario, è concesso ai soliti noti.

Perché da lontano vedo l’Italia come un calderone di energie tenute a freno da un trentennio di mala politica; come un coacervo di potenzialità che avrebbero bisogno di pochissimo per realizzarsi a pieno: di in poco di equità in più e di un poco di giustizia in più, prima che di qualche capitale in più.

Festeggio anche se non credo che Monti potrà fare molto altro che garantirci la sopravvivenza fino a maggio, la fine della tradizionale stagione dei mercati, e se ci sarà riuscito avrà già ottenuto un clamoroso successo. Potrà però dare dei segnali: avviare la politica, cui dovrà ad ogni modo lasciare la strada, ad una nuova era di serietà; mostrare agli italiani che anche nei palazzi del potere ci può essere un altro modo di fare le cose.

Lo potrà fare con delle leggi, ma anche conservando i suoi modi, così diversi da quelli del becerume che affolla le tele-bettole della, da qualche giorno, vecchia politica.

Il rinascimento cominciò con l’umanesimo. La risurrezione avvenne quando tornammo ad occuparci di problemi di stile. In un’Italia che smette d’andarsene in giro a sbraitare con indosso una camicia azzurra o verde, sono disposto a scommettere quel che ho.

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