• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

Home page > Attualità > Bosnia-Erzegovina: prove tecniche di secessione?

Bosnia-Erzegovina: prove tecniche di secessione?

Come nelle tragedie classiche, proprio nell’anno del trentennale del conflitto, la crisi politica in Bosnia-Erzegovina si acuisce e il ritornello della secessione torna ad echeggiare in maniera dirompente tra la popolazione. 

di 

 

A tessere i fili della crisi è il membro della Presidenza Milorad Dodik, leader dell’Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti (SNSD), ovvero uno dei partiti di coalizione del governo dell’Entità territoriale della Republika Srpska (che insieme alla Federazione della Bosnia-Erzegovina compone la Repubblica della Bosnia-Erzegovina). Proprio Dodik, in occasione delle celebrazioni del 9 gennaio per la commemorazione della nascita politica della Republika Srpska, ha tuonato che “la storia della Bosnia-Erzegovina civile è un’illusione che vogliono imporci e spingere il popolo serbo nelle minoranze civiche”. In ordine di tempo, questa è solo l’ultima di una lunga serie di minacce che ormai da vari mesi i membri della SNSD rivolgono alle strutture centrali di Sarajevo. In questo caso, a rendere ancor più grottesca la situazione è proprio il contesto in cui si sono state formulate tali asserzioni. Il passato 9 gennaio, infatti, i rappresentanti di Banja Luka si sono riuniti per ricordare il trentesimo anniversario del “Giorno della RS”, ovvero, quella che potrebbe essere definita l’apologia di un paradosso internazionale: la creazione di una realtà disgregativa che ledeva l’ecosistema della stessa struttura nazionale. Ma non solo, questo appuntamento in molti evoca anche i fantasmi della pulizia etnica, del trasferimento delle popolazioni, della distruzione del tessuto socioculturale della Bosnia socialista. La genealogia della ricorrenza va intercettata nel 1992 quanto, a seguito del referendum di dubbia validità giuridica del novembre del 1991 convocato dai nazionalisti serbi, l’assemblea del popolo serbo approvò la Dichiarazione sulla proclamazione della Repubblica del popolo serbo della Bosnia-Erzegovina come Entità indipendente all’interno della Bosnia-Erzegovina, creando la prima sostanziale frattura che avrebbe condotto alla guerra. A governare gli insorti di Pale c’era un manipolo di politici del Partito Democratico Serbo (SDS), tra cui i più celebri Karadžić e Momčilo Krajišnik, Presidente del consiglio del governo bosniaco eletto nel 1990. Sia Karadžić che Krajišnik saranno successivamente condannati dal TPI dell’Aia per crimini di guerra. Le celebrazioni per la nascita della Republika Srpska, mai riconosciuta a livello internazionale durante l’arco del conflitto come, d’altronde, anche la Repubblica Serba di Krajina, hanno continuato a suscitare un diffuso malessere tra i politici della Federazione e tra i civili vogliosi di vivere in una Bosnia pacificata. 

La discussione intorno a questa giornata non è nuova, e già in diverse occasioni ha acquisito centralità nel dibattito politico, traducendo la complessità della metabolizzazione collettiva del trauma bellico. Allo stesso tempo, il dibattito ha inquietantemente dimostrato quanto possa essere tutt’ora polisemica l’interpretazione della guerra degli anni Novanta. Un tentativo di dirimere la controversia e dare uniformità alle interpretazioni della legge fondamentale è pervenuto dalla Corte costituzionale nel 2015, in risposta al processo di verifica richiesto dal membro dell’allora Presidenza della Bosnia-Erzegovina, Bakir Izetbegović. Dopo l’analisi contenutistica della ricorrenza, i giudici incaricati ne hanno decretato l’incostituzionalità in relazione alla Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale per la tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali. La sentenza, però, non ha avuto l’attuazione sperata e nonostante la celebrazione fosse sostanzialmente antitetica rispetto all’ontologia della Bosnia-Erzegovina stessa, ha continuato ad aver luogo in maniera diversamente partecipata. In occasione dell’ultima edizione ancora più rumore ha suscitato l’intervento del Primo ministro serbo Ana Brnabić che, durante il discorso a Banja Luka, si è lanciata in una acrobatica quanto traballante allegoria volta ad accomunare le gesta dei partigiani titini con quelle dei nazionalisti del Partito Democratico Serbo. Un uso politico della storia che in particolar modo a queste latitudini non può che riportare alla memoria le vecchie manipolazione propagandistiche del crepuscolo degli anni Ottanta.

La crisi istituzionale 

La giornata del 9 gennaio 2022 è stata soltanto un nuovo elemento che si anella una crisi che ormai perdura da diversi mesi e che proprio nell’ultimo mese del 2021 ha avuto la sua acme. Al centro del dibattito, ancora una volta, i trattati di Dayton del 1995 e la Costituzione annessa che, utile sottolinearlo, ancora oggi manca di una traduzione ufficiale e univoca lasciando così adito ad alcune interpretazioni giuridiche nel processo di trasposizione dall’inglese. 

Se si volesse districare in questo flusso carsico un momento generativo con il quale concettualizzare quest’ultima crisi, bisognerebbe allocato nel luglio del 2021, quando l’ex Alto rappresentante internazionale, Valentin Inzko, ha deciso di implementare l’azione legislativa al fine di rendere penalmente perseguibili i negazionisti del genocidio. La disposizione, ottima per fotografare nuovamente la fragilità del processo rigenerativo sociale, è stata valutata da parte dei rappresentanti di Pale come l’ennesima ingerenza internazionale negli affari interni delle Entità, innescando così il boicottaggio da parte dei membri della SDSN di alcuni lavori comuni. Un nuovo peggioramento dei rapporti istituzionali è avvenuto nell’ottobre successivo, quando la presidentessa della RS Željka Cvijanović ha approvato un decreto secondo il quale le modifiche al Codice penale della Bosnia-Erzegovina, che puniscono la negazione del genocidio e altri reati, non risultano valide nella zona serba. 

Ad acutizzare i dissapori interni sono sopraggiunti anche alcuni scandali amministrativi e finanziari come, ad esempio, quello rispetto alla presunta somministrazione dell’ossigeno industriale al posto di quello medicale destinato ai pazienti degli ospedali della RS. Le recriminazioni reciproche tra le due Entità sulla responsabilità dell’atto sono state capitalizzate dai rappresentanti dell’SNSD che hanno strumentalizzato l’evento per disarticolare maggiormente le funzioni comuni nazionali. In occasione del trentesimo anniversario dell’Assemblea del popolo serbo di Bosnia Erzegovina, i membri del partito di Dodik hanno annunciato l’inizio di una politica volta a ripristinare, nel quadro dei principi costituzionali e di Dayton, le competenze trasferite dalla Republika Srpska alle istituzioni centrali della Bosnia. La battaglia ingaggiata dall’SNSD ha occupato in primo luogo lo spazio pubblico, adoperando la propaganda filo partitica per evocare una campagna volta alla “difesa della Republika Srpska”. Successivamente, si è poi rivolta alla funzione dell’Alto rappresentante, nel tentativo di decostruirne la funzione della stessa mansione. Oltre alla minaccia di volter sospendere l’efficacia delle leggi emanate negli ultimi anni dall’Alto rappresentante (circa 140), l’SNSD ha più volte messo in discussione anche le prossime elezioni dell’autunno 2022, sostenendo una lettura che vedrebbe la Republika Srpska ostaggio politico della Repubblica di Bosnia-Erzegovina. Un ulteriore forzatura del baricentro centro-periferia, pertanto, è stata inflitta proprio durante questi concitati momenti, ovvero quanto con un provvedimento anticostituzionale l’Assemblea nazionale della RS ha approvato una legge sui medicinali e i dispositivi medici che prevede l’istituzione di una propria agenzia farmaceutica, sottraendo il controllo a quella statale che opera dal 2009. 

Il ripristino delle competenze della Republika Srpska

Cosa intendesse Dodik per ripristinare le competenze dell’Entità sottratte della Repubblica di Bosnia-Erzegovina è stato evidente poche settimane fa. Il 10 dicembre, in una caotica seduta, l’Assemblea nazionale della Republika Srpska (RS) ha adottato la risoluzione che predispone il trasferimento delle competenze statali al livello d’Entità nel campo della tassazione indiretta, della giustizia, della difesa e della sicurezza. Nella stessa seduta, è stata inoltre approvata anche la Dichiarazione sui Principi Costituzionali della RS, che conferisce l’incarico alle istituzioni della RS di redigere una costituzione secondo la quale Banja Luka diventerebbe la capitale dell’Ente, e che classifica tutte le leggi imposte dall’Alto Rappresentante incostituzionali. L’azione di forza dell’Assemblea nazionale della Republika Srpska non solo si pone in antitesi con quanto disciplinato dalla Costituzione bosniaca, ma pone in dubbio lo stesso futuro dello Stato. Il vicepresidente della Bosnia-Erzegovina, Ramiz Salkic, dell’Entità della Republika Srpska, ha dichiarato che l’adozione delle conclusioni è stata “l’’inizio della distruzione dell’ordine costituzionale e l’abbandono dell’accordo di pace e della pace di Dayton”.

Per legittimare l’azione Dodik ha fatto ricorso all’articolo III della Costituzione bosniaca, secondo il quale le funzioni e i poteri che non sono esplicitamente assegnati alle istituzioni della Bosnia-Erzegovina appartengono alle Entità, salvo diverso accordo tra le due componenti. Secondo lo stesso articolo, però, le Entità della Republika Srpska e della Federazione della Bosnia-Erzegovina non possono riacquisire autonomamente le competenze che sono state trasferite allo Stato coralmente. Per quanto riguarda l’aspetto militare, cavallo di battaglia del leader serbo-bosniaco, il processo di dismissione della difesa territoriale al livello centrale è iniziato nel 2005, portando nel 2006 alla creazione della Forze armate della Bosnia-Erzegovina. Discoro differente invece per la questione inerente alle imposte indirette. L’ente incaricato è un’organizzazione amministrativa statale indipendente e responsabile dell’applicazione e dell’attuazione delle normative legali relative alla tassazione indiretta in Bosnia ed Erzegovina. Per tale ragione le Entità non avrebbero alcun potere per rivendicarne le funzioni.

Oggi la Bosnia è uno Stato tetraplegico, amputato delle sue funzioni ontologiche proprio da chi dovrebbe perseguire la sua piena realizzazione. Il futuro nei Balcani, ancora una volta, appare potenziale. 

Bosnia, un passato che ritorna?

Di chi è la responsabilità? Dove vanno rintracciate le colpe della crisi? Sarebbe parzialmente corretto osservare la situazione attuale attraverso una postura evenemenziale e poco incline e ricollegare gli avvenimenti all’origine. Nel descrivere la situazione sorta dopo Dayton, lo scrittore e accademico Predrag Matvejević ha concluso che “più che uno Stato” la Bosnia “è uno scheletro: una ragione divisa artificialmente in tre parti, sembrata in tre religioni, ciascuna delle quali appoggiata da un nazionalismo retrogrado e intransigente”. La comprensione dell’attuale discrasia interna, suggerisce implicamene Matvejević, è immanente alla stessa articolazione dell’accordo di pace, nonché al significato ascritto in esso. A Dayton, nel 1995, ha vinto la Realpolitik: quella che invece di schierarsi ad oltranza contro il nazionalismo ha consacrato i vari Karadžić, Ratko Mladić o Mate Boban come rappresentanti legittimi del popolo; quella che ha continuato a minimizzare le costanti infrazioni da parte dei belligeranti delle Risoluzioni 816 (No-fly-zone), 819 e 824 (Safe-area); quella di Srebrenica, Goražde e Žepa; quella che non fatto differenze tra vittime e aggressori. La pax americana voluta da Clinton ha cristallizzato le conquiste militari e le “bonifiche etniche”. 

D’altronde, il destino della Bosnia sembrava essere segnato ancor prima dello scoppio ufficiale della guerra. Già da quando nel febbraio 1992 la Comunità internazionale presentò il primo piano per dirimere la questione bosniaca, il Piano Cutileiro, che suggeriva una primordiale divisione della nazione su base etnica e cantonale, avallando così la retorica cara i nazionalisti sull’impossibile convivenza. Dayton non è che la fine di un tortuoso e insanguinato percorso che ha visto la Comunità internazionale cercare di curare la Bosnia con un trattamento chemioterapico: la pace anche a costo di congelare la situazione bellica e istituzionalizzarla. Dayton ha gettato le basi per un mostro giuridico macchinoso e disgregativo, che più che stimolare la cooperazione tra i popoli costituitivi li ha ghettizzati in zone territoriali, innalzando simulacri statali e congestionando il dialogo e il confronto. Oggi, la Bosnia assomiglia a una paradossale tela di Penelope: riconosciuta Stato sovrano di giorno, ma minata di notte da alcuni dei suoi stessi rappresentanti istituzionali. Ricondurre le problematiche dell’attualità bosniaca unicamente a Dodik implicherebbe evitare di affrontare le sfide di un passato conflittuale che inonda il presente. Forse, è arrivato il momento di iniziare a riflettere sul perché si sia deciso di affidare la ricostruzione della Bosnia-Erzegovina proprio a chi in quattro anni di guerra ha tentato a più riprese di distruggerla.

Per approfondire: 

  • Bianchini S., Sarajevo. Le radici dell’odio. Identità e destino dei popoli balcanici, Edizioni Associate, Roma 2003.
  • Carmichael C., Capire la Bosnia ed Erzegovina, Bottega Errante, Udine 2020.
  • Carnovale M., La guerra di Bosnia: una tragedia annunciata. Attori nazionali e spettatori internazionale del conflitto nell’ex Jugoslavia, Istituto Affari Internazionali. Lo spettatore internazionale, Bologna 1994.
  • Crespi G. G., Fruscione G., Sasso A. Selvelli G., Siragusa M., Capire i Balcani Occidentali. Dagli accordi di Dayton ai giorni nostri, Bottega Errante, Udine 2021.
  • Dizdarević Z., Giornale di guerra. Cronaca di Sarajevo assediata. Sellerio editore, Palermo 1994. 
  • Guidi M., La sconfitta dei media. Ruolo responsabilità ed effetti dei media nella guerra della ex-Jugoslavia, Baskerville, Bologna 1996. 
  • Gutman R., Rieff D., (a cura di), Crimini di guerra. Quello che tutti dovrebbero sapere, Contrasto-Internazionale, New York 1999. 
  • Ivetic E., I Balcani dopo i Balcani. Identità e Eredità, Salerno, Roma 2015.
  • Ivetic E., La Jugoslavia sognata, FrancoAngeli, Milano 2012.
  • Janigro N., L’esplosione delle nazioni. Il caso Jugoslavo, Feltrinelli, Milano 1993.ù
  • Leone L., Dayton 1995. La fine della guerra in Bosnia-Erzegovina, Infinito edizioni, Formigine (MO) 2020. 
  • Leone L., La pace Fredda, Infinito edizioni, Formigine (MO) 2020.
  • Lombezzi M., Bosnia. La torre dei teschi. Lessico di un genocidio, Baldini & Castoldi, Milano 1996. 
  • Lombezzi M., Cieli di Piombo, E/O, 1993.
  • Mango A. M. (a cura di), La guerra dei dieci anni. Jugoslavia 1991-2001: i fatti, i personaggi, le ragioni dei conflitti, Il saggiatore, Milano 2015. 
  • Maran B., Dalla Jugoslavia alle repubbliche indipendenti. Cronaca postuma di un’utopia assassinata e delle guerre fratricide, Infinito Edizioni 2016.
  • Matvejević P., Sarajevo, Motta, Milano 1995.
  • Petrungaro S., Balcani. Una storia di violenza, Carocci editore, Roma 2012. 
  • Pirjevec J., Le guerre jugoslave. 1991-1999, Einaudi, Torino 2001.
  • Pirjevec J., Tito e i suoi compagni, Einaudi, Torino 2015.
  • Rastello L., La guerra in casa, Einaudi, Segrate (Mi) 2020. 
  • Rumiz P., Maschere per un massacro, Editori Riuniti, Roma 2000.
  • Todorova M., Immaginando i Balcani, Argo, Roma, 2002.
  • Vesovic M., Chiedo scusa se vi parlo di Sarajevo, Sperling & Kupfer, Segrate (MI) 1996. 
  • Zlatko D., Riva G., L’ONU è morta a Sarajevo, Il saggiatore, Milano 1996.

Foto Wikimedia

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità