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Bergoglio e i profughi di Lesbo, il reale valore del numero dodici

C’è un luogo comune che ci ripetiamo spesso in varie occasioni, come quando si tratta di minimizzare una perdita o comunque di far prevalere una positiva visione ottimistica su un punto di vista negativo, magari pur sapendo che quest’ultimo è proprio quello più realistico. «È sempre meglio che niente», ci diciamo. È un modo per autoconsolarci delle avversità, la logica del bicchiere mezzo pieno che ci fa comunque stare un po’ meglio. Capita anche che a dirci la stessa cosa siano altre persone, ma in molti di quei casi la cosa non è altrettanto consolante perché lo scopo può essere quello di giustificare gli sbagli che quegli altri hanno fatto sulla nostra pelle, oppure di convincerci della bontà di una cosa che buona non lo è affatto, o almeno non tanto quanto si vuole farci credere, e allora lo percepiamo come un tentativo di ingannarci.

L’iniziativa di Bergoglio di portare in Italia dodici profughi siriani da Lesbo sembra proprio da ascrivere in quest’ultima categoria, sebbene i clericalissimi media italiani si affannino a dipingerla in modo completamente diverso. L’isola greca è da tempo al collasso per quanto riguarda "l’invasione" dei migranti, migliaia di persone provenienti da tutto il medio oriente vi approdano partendo dalle coste turche, ed è allo stesso tempo sull’orlo del precipizio dal punto di vista economico a causa delle ingenti perdite nel comparto turistico, sua principale fonte di sostentamento. Farsi carico di dodici persone su oltre quattromila di certo non contribuirà minimamente né a risolvere il problema della massa di profughi né a sollevare le sorti dell’isola. Contribuirà però, complice l’intero panorama della (dis)informazione italiana, a millantare la figura di una Chiesa vicina agli ultimi oltre che, per induzione, a giustificare le campagne sull’Otto per mille basate su pochi esempi, come questi dodici, ma che valgono ben oltre un miliardo di euro.

Si è ripetuta su un altro meridiano la stessa operazione mediatica che fu messa in campo all’inizio del pontificato di Bergoglio proprio sul nostro territorio, in quell’altro avamposto europeo che è l’isola di Lampedusa, anch’essa porta continentale per i migranti che partono dalle coste libiche. In quell’occasione il papa non portò via con sé nessuno ma chiese pubblicamente ai suoi di aprire conventi e parrocchie ai migranti ospitando almeno una famiglia per ogni struttura. Ben pochi presero alla lettera quell’appello, lo dimostrarono inchieste giornalistiche pubblicate su carta e andate in onda in trasmissioni televisive, ma l’immagine rimasta scolpita nella memoria della maggior parte delle persone rimane sempre quella della Chiesa accogliente. È una questione di freddi numeri: una singola inchiesta per quanto ben fatta non può nulla contro il risultato di un tam tam protratto per giorni su qualunque, e sottolineo qualunque, mezzo di comunicazione di massa.

Il meccanismo è noto a chiunque si occupi di informazione ed è a maggior ragione noto ai responsabili dell’informazione di un’organizzazione che di marketing vive. Nessuna mossa è lasciata al caso, a partire dal tweet lanciato al momento della partenza in cui il papa ha detto «i profughi non sono numeri»; certo che no, soprattutto perché in questo caso i numeri non sono proprio spendibili vista la loro esiguità. Che dire poi dell’ostentazione di disinteresse nel pubblicizzare il fatto che i dodici sono tutti musulmani, mentre altri profughi cristiani sarebbero stati lasciati per non avere le carte in regola?

Basta far notare qualche particolare sottaciuto, come il fatto che questi siriani andranno alla Sant’Egidio che, oltre che essere italiana e non vaticana, è un’organizzazione che ha come fine dichiarato l’evangelizzazione. Date le premesse appare quantomeno improbabile che tali profughi potranno coltivare tranquillamente la propria fede religiosa. Senza contare il fatto che intorno all’accoglienza e a carico dello Stato si è sviluppato un vero e proprio business, in cui proprio le realtà cattoliche giocano un ruolo di primissimo piano.

Sono funzionali allo scopo perfino gli aneddoti, come quello secondo cui il papa ha accettato l’idea venuta a un suo collaboratore perché evidentemente suggerita dallo Spirito Santo, e il simbolismo implicito nel numero di profughi che curiosamente richiama il numero degli apostoli, il quale a sua volta riprendeva simbolicamente il numero delle tribù d’Israele. Ma al di là di queste sfumature squisitamente religiose, di cui poco o nulla interessa a chi non vive la dimensione spirituale cattolica, a far scuotere la testa è la corsa dei nostri più alti rappresentanti istituzionali ad agganciare il proprio vagone al treno propagandistico guidato dalla locomotiva vaticana. Non solo dei nostri a dirla tutta, anche il premier greco Tsipras non si è risparmiato in piaggeria, seppur con toni diversi, e forse ha contribuito concretamente a mettere in piedi lo show, se è vera l’affermazione attribuita a Save the Chidren secondo cui i bambini nel centro profughi sono stati appositamente liberati, nel senso letterale del termine.

Laura Boldrini ha affidato il suo papolatrico commento a un tweet in cui esorta l’Unione Europea ad ascoltare Bergoglio, mentre il presidente Sergio Mattarella ha detto le stesse cose in un comunicato ufficiale sentendo il bisogno di aggiungere il rinnovo della propria “profonda stima e considerazione” nei confronti del papa. In altre parole, le persone a cui abbiamo affidato la nostra nazione chiedono a loro volta alle istituzioni continentali di dare credito non a essi stessi, il che sarebbe più che lecito e perfino auspicabile vista la loro posizione, ma al monarca assoluto di uno staterello antidemocratico medievale. Perfino il premier Renzi ha pensato fosse doveroso ringraziare il papa del suo viaggio a Lesbo. Schiene sempre più curve dalle parti dei palazzi istituzionali.

Massimo Maiurana

 
Questo articolo è stato pubblicato qui

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