Amiamo la vita, se solo possiamo viverla
Finalmente è arrivata la tregua. Un seme di pace fragile, in un territorio devastato dalla guerra, la striscia di Gaza. I numeri parlano chiaro. Dopo 470 giorni di guerra, più di 46.500 palestinesi sono morti, 18.000 erano bambini, almeno altri 11.000 sono i dispersi, i feriti superano i 110.000 (4.500 le persone che hanno subito amputazioni) e ci sono 1,9 milioni gli sfollati: il 90% della popolazione.
di Emilia De Rienzo (*)
470 giorni, una eternità!
Tanto è durata la rappresaglia israeliana realizzata con le armi più raffinate e potenti, cacciabombardieri di ultima produzione, carri armati indistruttibili e droni pronti a colpire facili bersagli innocenti che con Hamas non avevano nulla a che vedere.
Finalmente il rumore assordante delle bombe ha taciuto. Quelle bombe che cadevano inesorabili, sulle case, sulle strade, sugli ospedali, sulle scuole, quelle bombe che hanno ucciso bambini, donne inermi, uomini, che hanno mutilato migliaia di persone, che hanno ridotto in macerie e cenere un paese già martoriato da anni e anni di occupazione, hanno fatto silenzio.
Per i cittadini di Gaza non c’è mai stato modo di sfuggire ai bombardamenti. Erano intrappolati in un territorio dove oltre l’80 per cento della Striscia è stato raso al suolo.
Quindici mesi di massacri hanno ridotto in mille pezzi la mappa sociale di Gaza: le reti familiari e di vicinato, il sistema economico, quello culturale. Hanno annullata ogni possibilità di dare ad ogni bambino ciò di cui ha diritto: la scuola. Gli hanno regalato la paura, il terrore, giorno e notte. Secondo l’Onu, i bambini orfani di almeno un genitore sono 35mila e «Gaza ospita la più grande coorte di bambini amputati nella storia moderna».
Ma le bombe, alla fine, hanno taciuto e le persone sopravvissute a Gaza, incredule, si sono riversate sulle strade. Il profondo dolore che li ha accompagnati in questi lunghi mesi, si è mescolato alla gioia ed è riemersa una fievole speranza. In tanti non vogliono pensare che la tregua è fragile e che i combattimenti potrebbero riprendere. Vogliono godere di questo momento di pace. Vogliono respirare e muoversi, organizzarsi e riedificare, riprendere a vivere.
Vogliono tornare a casa: sanno che quasi certamente la casa non c’è più “e allora io pianterò una tenda sulle sue rovine” dice qualcuno. – Vogliono riunirsi con la famiglia da cui sono stati separati. Una donna spera di ritrovare e seppellire i corpi dei suoi tre figli, che sono rimasti intrappolati sotto le macerie della loro abitazione durante un attacco aereo israeliano. Sono stanchi della violenza, della morte, della fame, vorrebbero solo vivere una vita normale. L’esercito israeliano ha ucciso i loro cari, distrutto le loro case, le strade, cancellato anche i loro ricordi, la loro memoria. Cosa devono ancora prendersi prima che tutto finisca?
Il dolore è fortissimo, le ferite tante eppure oggi c’è aria di risveglio, la voglia di non mollare, di ricominciare anche se il loro paese è una montagna di detriti, anche se le strade un tempo trafficate si sono trasformate in un paesaggio inquietante di crateri polverosi, fili intrecciati e palazzi accartocciati. Un paesaggio apocalittico, surreale. La testimonianza molto chiara che l’uomo può non conoscere la pietà, che dopo questo c’è ancora chi vorrebbe combattere per vincere, per vincere di più. Che questa voglia di dominare non avrà mai fine, a qualsiasi prezzo.
Eppure nelle strade della Striscia c’è un fermento quasi vitale. Noi palestinesi “Amiamo la vita” diceva Mahmoud Darwish:
Amiamo la vita
Amiamo la vita, se solo possiamo viverla
Danziamo fra due martiri, in mezzo ad essi
Piantiamo palme per le viole,
o innalziamo un minareto
Amiamo la vita, se solo possiamo viverla
Rubiamo un filo al baco da seta
per tessere il nostro cielo
E racchiudere questo viaggio
Spalanchiamo la porta del giardino
Affinché il gelsomino possa uscire sulle strade
come un giorno d’estate
Amiamo la vita, se solo possiamo viverla
Ovunque ci stabiliamo, seminiamo piante
Che crescono in fretta
E mietiamo la morte
Soffiamo nel flauto il colore della lontana distanza
Disegniamo un nitrito sulla polvere del selciato
E scriviamo i nostri nomi
Pietra per pietra
Ecco il lampo, illumina per noi la notte
Rischiarala almeno un po’.
Anche noi amiamo la vita, se solo possiamo viverla.
Mahmoud Darwish, grandissimo poeta palestinese morto nel 2008 a 67 anni, sa quanto sia fondamentale la memoria per preservare le radici e per costruire un futuro, e sottolinea l’importanza della poesia come strumento per elaborare il dolore, dare voce ai senza voce, resistere all’oppressione.
La letteratura, e in particolare la poesia, è necessaria per un popolo tanto martoriato, rappresenta una forma di contro-narrazione, che contesta la negazione della cultura palestinese e la narrazione alterata e distorta dei colonizzatori che toglie ogni forma di autenticità, dignità e realtà umana. Come sotto le rovine di Troia, Darwish si definisce “un poeta troiano” quando descrive lo stato d’assedio e la distruzione della sua città dal punto di vista degli sconfitti. Un ultimo eroe epico che difende il diritto di Troia alla sua parte di racconto. “La nostra storia è stata sospesa. Il nostro passato, per così dire, è proprietà dell’altro, e sta a noi tornare ad esso e connetterci ad esso”. È necessario ricordare ogni luogo, ogni paesaggio, ogni profumo per la memoria di un intero popolo, come lasciare ogni ricordo inciso sulla pietra, anzi pietra su pietra (“parla perché io appoggi il mio cammino su una pietra vera”). Chi ha il potere di ricordare può ancora essere libero, può sottrarre all’oblio quello che gli è stato tolto.
“La Storia la scrivono i vincitori, ma è la letteratura a scrivere le storie delle vittime”.
Il poeta è il testimone della memoria di fronte all’oblio, e la sua poesia non si rifiuta a volte di “partecipare implicitamente all’impresa della speranza”. Nella letteratura l’esperienza individuale e collettiva si saldano in un’esperienza poetica che si fa linguaggio universale “per permetterci di sentire il dolore, e le ferite e quindi, per farci accedere alla nostra umanità”.
Non scrivere la storia come poesia.
Lo storico non ha i brividi quando elenca le vittime […]
La storia è un diario d’armi scritto sopra i nostri corpi
La storia non ha una compassione tale
Da farci provare nostalgia per i nostri inizi
E non vuole farci sapere cosa abbiamo davanti e dietro.
L’esperienza poetica di Darwish nasce dall’ossessione di dire la perdita delle origini, di trovare parole e senso allo sradicamento, all’esilio senza ritorno, ai limiti che la Storia ha imposto all’esistenza di un intero popolo. Essere voce della propria esperienza esistenziale, ma anche dar voce “a chi ha perso il diritto di parlare”.
Annientata e senza voce, la gente di Gaza anche in questi giorni si batte per garantirsi la continuità nel tempo. Anche davanti alla paura della fine. È quello che chiede un poeta: di credere nella speranza di rigenerazione, perpetuare la memoria, raccontare la vita.
Così scriveva Rifaat al-Areer (1979-2023), scrittore e docente universitario di letteratura, pochi giorni prima che un bombardamento israeliano mettesse fine alla sua vita a Khan Younis, il 7 dicembre 2023:
Se io dovrò morire,
tu dovrai vivere
per raccontare la mia storia
vendere le mie cose
comprare un pezzo di stoffa
e qualche filo
(magari bianco con una lunga coda)
così che un bimbo, da qualche parte a Gaza
mentre fissa il cielo
in attesa di suo padre
– morto all’improvviso senza dire addio
a nessuno
né alla sua pelle
né a se stesso –
veda il mio aquilone
quello che tu hai costruito
volare alto
e pensare, per un attimo, che sia un angelo
a riportare amore.
Se io dovrò morire,
che porti allora una speranza
che la mia fine sia un racconto.
“Nella vita storica, questa forma di speranza pura, – dice Marìa Zambrano ne I Beati – separata, lasciata a se stessa o consegnata all’immensità, si produce a volte per lunghissimo tempo in popoli o razze oppresse, e più che oppresse abbandonate a se stesse. (…)
Popoli, razze intere in stato di tribolazione, di fame, di umiliazione popolano il pianeta minacciati – secondo le statistiche degli organismi competenti – di essere spazzati via dalla miseria, continuano a vivere lì, sul nostro stesso pianeta.
E se hanno resistito e resistono dev’essere, necessariamente, in virtù della forza sovrumana – la parola viene da sola – di questa speranza che li mantiene sospesi al di sopra del tempo, al di sopra della vita, generazione dopo generazione, mentre nell’occidente civilizzato il crescente benessere – sempre alquanto limitato – coesiste con l’angoscia, con la disoccupazione dell’anima e della mente, con lo sport intellettuale della disperazione estetizzante e letteraria, con quell’uso dell’intelligenza che pretende di governare la realtà senza tenersi in contatto con essa; con la fragilità dinnanzi alla sofferenza, con lo stupore provocato dalla constatazione che la felicità non è un frutto che si raccolga da sé, che c’è bisogno di produrla, sostenerla, crearla e, cosa ancora più difficile, di saperla ricevere e raccogliere quando arriva”.
(*) Tratto da Comune-info.net.
Questo articolo è stato pubblicato quiLasciare un commento
Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina
Se non sei registrato puoi farlo qui
Sostieni la Fondazione AgoraVox