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Il lento e nascosto annientamento di un popolo. Il Tibet 55 anni dopo l’invasione cinese

Gli effetti catastrofici di una famigerata “liberazione pacifica” e il silenzio a livello internazionale a discapito di un Tibet sfruttato e martoriato dalla forza cinese

 

Ancora un'immolazione in Tibet. È disarmante come ogni volta che si parli del Tibet non si parli mai di novelle, che ben si addicono o meglio si addicevano a un luogo come quello di cui parla Heinrich Harrer nel suo romanzo “Sette anni in Tibet”. La centotrentunesima autoimmolazione dal 2009. I motivi sono sempre gli stessi: protesta contro il regime oppressivo del governo cinese che dall’oggi al domani si è arrogato il diritto di invadere un altro Paese, affermando la sua supremazia su un piccolo Stato di soli centomila abitanti. L’invasione si è svolta secondo il modus operandi tipico di una potente nazione, prima con la costruzione di strade, utili per il passaggio dei carri armati che avrebbero colonizzato il territorio, poi con la distruzione della cultura tibetana.

Nel folle progetto di annessione del Tibet, la Cina non ha avuto remore di alcuna sorta: i tibetani sono stati portati in Cina (come nel clamoroso caso del Panchen Lama, figura religiosa rapita all’età di sei anni e di cui tutt’ora le notizie sono scarse se non nulle) e i cinesi sono stati incentivati a trasferirsi in Tibet. È per questo che la preponderanza etnica in Tibet è cinese. Sono passati cinquantacinque anni dalla violenta rivolta e susseguente invasione del Tibet, ma tutto questo succede ancora oggi, senza grandi cambiamenti.

Basti pensare che per evitare “intrusioni”, la Cina dal mese di marzo ha chiuso qualsiasi ingresso alla Regione Autonoma del Tibet e bandito ogni visitatore e ogni reporter, eccezione fatta per i turisti cinesi che si fanno immortalare davanti a Lhasa, uno dei luoghi più sacri della religiosità tibetana, travestiti con i costumi del posto come durante un continuo carnevale. Questa mossa rientra nel progetto colonizzatore di Pechino, che invece di intimidire i monaci tibetani inviando un numero sempre più grande di forze armate, li sta soffocando con folle di turisti invadenti. I mezzi d’informazione cinese dunque raffigurano sempre gli arretrati tibetani come sfortunati beneficiari degli “aiuti” cinesi. Così mentre i cinesi si godono la loro nuova libertà di viaggiare, la stessa cosa non succede per i tibetani che sono costretti a vivere in catapecchie sulle quali svetta la bandiera cinese, costantemente controllati. Ogni tibetano deve avere obbligatoriamente in casa i ritratti degli ultimi quattro leader cinesi.

Quasi tutti i tibetani sono trattati come prigionieri politici e non possono richiedere un passaporto per abbandonare il Paese. Ogni ipotetico atto che possa minare la stabilità politica del Paese viene soffocato da violenze, arresti e silenzio. Questo è il caso di un concorso di lingua tradizionale tibetana organizzato in una contea del Tibet per la Giornata Internazionale della Lingua Madre, istituita dall’UNESCO nel 1999, allo scopo di celebrare le diversità linguistiche e culturali non come motivo di contrasto, ma come possibilità di apprendimento e ampliamento della propria cultura e dei propri orizzonti umani. Il suddetto concorso è stato bloccato dal governo cinese in tempi velocissimi dalla stesura del bando per “motivi di ordine pubblico e per le notevoli implicazioni politiche in esso contenute”, come spiega il governo cinese, infatti “nella lingua tibetana ci sono molte espressioni utilizzate per esprimere opposizione al governo di Pechino”. Successivamente i tibetani organizzatori del concorso sono stati oggetto di arresto e di imprigionamento in seguito a un giudizio sommario.

La stessa sorte è capitata il 24 aprile a un gruppo di monaci accusati di aver raccolto e inviato in India del denaro come contributo alla Cerimonia di Lunga Vita del Dalai Lama. Nello stesso giorno, giunta l’eco della condanna di un altro civile tibetano, parente di Thinley Namgyal, l’ultimo tibetano deceduto dopo essersi dato fuoco. L’uomo è accusato di avere fotografato l’autoimmolato e di avere inviato gli scatti a “forze ostili” fuori dal Tibet. Ultimo, ma non per importanza, è l’ennesimo progetto di esaltazione della Cina e della “causa tibetana” con la produzione da parte della propaganda cinese di un nuovo film con un cast completamente tibetano che riafferma la storia del Tibet dal punto di vista cinese, secondo il quale i tibetani erano dei servi della gleba fino alla “liberazione pacifica” da parte della Cina. Il film di due ore tocca il cuore della gente con una storia che attraversa il periodo che va dalla “liberazione” del Tibet nel 1950 fino al 1980, raccontata secondo il punto di vista di Tenzin, figlio di un aristocratico, e del suo servo Phurbu.

Purtroppo nulla si fa a livello internazionale per porre rimedio alla triste condizione del Tibet che dura ininterrotta da 55 anni, e dove ogni giorno i Diritti Umani sono costantemente schiacciati per l’arbitraria scelta di una potenza economica mondiale; nulla si fa per arrestare questo seme di violenza che ormai si è trasformato in un albero che, purtroppo, continua a produrre i suoi acri frutti di giorno in giorno. Non sarebbe meglio fermare adesso questo sciame violento che sta completamente annientando un popolo e non tra dieci o forse vent’anni, quando sarà troppo tardi e ci resterà solo da recitare nell’ipocrita spettacolo del Ricordo? L’annientamento di un popolo si sta realizzando. Ora.

 

Andrea Grieco per "Segnali di Fumo" il magazine dei diritti umani

Questo articolo è stato pubblicato qui

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