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Violenza e società, la via d’uscita dalla paura e dall’odio è dentro noi stessi

"Passano i giorni, la vita intorno a me scorre apparentemente tranquilla ma sento, nell’aria, qualcosa che mi turba. Tornato a casa da scuola ogni tanto guardo il telegiornale e vi scorgo un mondo dominato dalla cattiveria degli uomini, in cui ognuno pensa solo a se stesso". E' l'incipit dello sfogo di uno "studente reporter" di qualche tempo fa, tratto dalla rubrica "la Repubblica@Scuola", in cui spesso ci si sofferma sulle ansie e sui sogni dei nostri giovani nel tentativo di trovare risposte adeguate al loro difficile percorso di crescita personale.

Ebbene, quelle parole tanto crude appaiono ogni giorno che passa sempre più prossime e opprimenti. In una società dominata non solo dall'egoismo e dal cinismo ma pure da un senso di dimessa frustrazione fra quanti - e sono fortunatamente la maggioranza - dovrebbero trasformare la propria indignazione in reazione positiva, in mobilitazione in grado di determinare dalle fondamenta un mutamento radicale di prospettiva etica e culturale, soprattutto nell'Occidente ormai colto da profondo impazzimento.

In una realtà già normalmente piena di violenze, guerre e crudeltà veniamo a sapere da quella finestra sul mondo che sono i moderni mezzi di comunicazione che la situazione è in costante peggioramento. Si sente parlare continuamente di nuove e pericolose forme di razzismo, di donne violentate e trattate come oggetti, di bambini usati come giochi perversi da adulti senza scrupoli. A conquistare la triste scena della cronaca quotidiana, soprattutto sugli stessi media, è ormai solo gente che pensa ai propri esclusivi interessi a danno degli altri. E quegli "altri", purtroppo, sono quasi sempre i più deboli della società.

Dietro i fatti più eclatanti come quello assurdo che ha colto di sorpresa la civilissima Norvegia, si nascondono tantissimi altri episodi di ordinaria e gratuita crudeltà perpetrati ai danni dei segmenti di umanità più indifesi. Azioni malvagie messe in atto non soltanto da folli terroristi o da incalliti criminali, ma sempre meno di rado perfino da persone delle quali ci si dovrebbe fidare. E così fra le pareti domestiche, nelle celle degli istituti di detenzione, negli ospedali, negli asili si annidano orchi di ogni sorta travestiti da genitori, da secondini, da infermieri, da insegnanti pronti a scaricare le proprie frustrazioni su bambini, anziani, disabili o detenuti. Forti e prepotenti con i deboli, tutti muniti di una "divisa sociale" che conferisce autorità fasulla e mal gestita.

Ma nessuna divisa può giustificare odiose forme di violenza, capaci di segnare per sempre le vite di altri esseri oltre che rappresentare esempi negativi per chi è predisposto all'emulazione. Specialmente fra i giovani più dannati e soli, alla perenne ricerca del diversivo che li faccia sentire parte attiva del proprio contesto. Chi non ricorda i tanti filmati finiti su youtube di ragazzini che prendono a calci e pugni, solo per divertimento, un proprio compagno di classe affetto da disabilità? L'effetto prodotto da quelle immagini non è per niente dissimile da quello suscitato dai video delle maestre del nido, che si accaniscono con cruda brutalità su bimbi smarriti e incolpevoli che non vogliono mangiare. O da quello della badante che schiaffeggia una povera vecchietta sulla sedia a rotelle, che si lamenta per il caldo disturbandola mentre è al cellulare. 

Quando nell'immaginario collettivo sono colpiti simboli intoccabili come il disabile, il bambino, l'anziano (ma potremmo aggiungere la donna, il detenuto, l'immigrato, il senzatetto, il gay), scatta facilmente il desiderio viscerale - e altrettanto irrazionale delle violenze che lo provocano - di giustizia sommaria. Si pretende per il mostro di turno la punizone "ora e subito". E, detta francamente, è la reazione minima che possa cogliere anche i soggetti più equilibrati e garantisti.

Del resto, quale approccio riflessivo si può avere rispetto alla balorda vicenda di quel branco di adolescenti che, la settimana scorsa, ha sequestrato nel tarantino una bambina di 5 anni per abusarne sessualmente in un casolare? Quell'esserino indifeso è stata marchiato a vita dall'infamia di un manipolo di disadattati, che magari avranno pure i loro problemi sociali ed economici, le loro carenze culturali ed affettive come si affretteranno a spiegarci esperti e luminari a reti unificate nei caldi pomeriggi estivi. Ma le fasi da incubo dell'aggressione subita dalla piccola, raccontate e descritte da lei stessa in lacrime ai genitori con dei disegnini, non meritano pietà umana, comprensione psicologica, indagine sociologica.

O ancora, è davvero possibile ragionare con lucidità sui motivi che inducono un gruppo di operai adulti (magrebini regolari e italiani), autonomi sul piano economico e in apparenza inseriti socialmente, a "puntare" in una discoteca del Piemonte una ragazza minorata a livello psichico per poi attenderla all'uscita del locale, trascinarla con la forza in auto e stuprarla ripetutamente? Certo, in questo caso non manca il materiale per un'analisi di tipo socio-antropologico dato che uno degli aggressori, qualche giorno dopo (i fatti risalgono a un anno fa ma le responsabilità sono state accertate solo di recente), ha inviato un messaggio alla vittima su Facebook per chiedere candidamente "scusa".

Infine, è ammissibile limitarsi all'asettico resoconto cronachistico nel riportare la vicenda delle decine di anziani che, per oltre un anno, nel pieno centro di Reggio Calabria, sono stati segregati nelle proprie abitazioni, immobilizzati, picchiati, seviziati da una banda di spietati rapinatori, il più delle volte solo per un bottino di qualche centinaio di euro?

Il filo rosso che lega tutte le storie - tanto quelle in cui il carnefice è qualcuno che dovrebbe "istituzionalmente" proteggere la vittima, quanto quelle in cui è invece un balordo, un bullo o un delinquente abituale - è il cedimento al fascino che esercita il "potere assoluto" di dominare la vita degli altri. E' la propria "debolezza" che diviene subdola forza e si trasforma in violenza. Il luogo comune che spesso ricorre in casi simili è "forti con i deboli e deboli con i forti". Stereotipo, come si vede e si legge, che nella società attuale sta diventando un'usanza aberrante che cela profondi malesseri e, se proprio si vuole sviscerare la questione da un punto di vista sociologico, va rimossa soprattutto investendo in opportunità e in cultura, già a partire dalla scuola.

I limiti del tollerabile sono stati ormai abbondantemente superati per fare spazio, nell'opinione pubblica evidentemente scossa, a paure ed angosce più che giustificate. Sentimenti, tuttavia, che assai di frequente sono destinati a sopravvivere solo lo spazio del clamore, fino a quando le storiacce di cronaca invadono giornali e tv. Perché, in fondo, a prevalere oggi nel subconscio di ognuno è sempre la cultura del "tutto è possibile": in termini di iniziativa, di performance spinta, di efficienza, di successo al di là (appunto) di ogni limite.

Ed è forse proprio questa dicotomia (da un lato, la paura di un pericolo percepito sempre come dietro l'angolo; dall'altro, la tentazione di prodursi in comportamenti proibiti e lesivi dei diritti altrui) a farci domandare, come Umberto Galimberti in un suo efficace intervento su Repubblica, "qual è il limite tra un atto di esuberanza e una vera e propria aggressione, tra un atto di insubordinazione e il misconoscimento di ogni gerarchia, tra le strategie di seduzione troppo spinte e l'abuso sessuale?".

Già, qual è? Dove può, in altre parole, trovare le risposte ai propri dilemmi chi ha ancora la forza di reagire dinnanzi a fatti di cronaca talmente esecrabili non da spettatore "neutro" ma come cittadino "normalmente" indignato? Nietzsche, più di un secolo fa, annunciava profeticamente "l'avvento dell'individuo sovrano riscattato dall'eticità dei costumi". Se però l'emancipazione - oltre ad affrancare gli individui dalla drammaticità del senso di colpa - ha finito per condannare tutti al parossismo degli eccessi, non di vero progresso può trattarsi bensì di spinta irrazionale verso l'autodistruzione.

Una spinta che diviene ancora più forte se si percepisce il futuro come una minaccia peggiore del già precario presente. Al punto che, come scriveva il sociologo tedesco Falko Brask, "meglio esagitati ma attivi che sprofondati in un mare di tristezza meditativa, perché se la vita è solo uno stupido scherzo, dovremmo almeno poterci ridere sopra...". Il problema è che sempre più spesso si finisce per ridere a spese degli altri, dei nostri simili maggiormente esposti ed indifesi. E per loro la vita non potrà mai ridursi a uno "stupido scherzo", ma sarà solo un eterno dramma.

Dunque, se sono queste le risposte dottrinali più plausibili, meglio continuare a cercare le nostre verità là dove da sempre è più probabile trovarle: nel nostro cuore, una matassa tanto misteriosa eppure più agevole da districare rispetto alla complessità della mente. Sì, meglio tornare all'ingenuo turbamento di quello "studente reporter" e ai suoi dubbi, che hanno ispirato e introdotto questa esposizione: "Perché tutto questo? Come possono gli uomini vivere sereni e spensierati in un mondo dominato dalla violenza? Perché nessuno trova il vero coraggio di fermarsi un attimo, di impegnarsi a trovare una soluzione, di porsi qualche domanda?".

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