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“Vertigini astratte” di Giuseppe Bonaccorso

«E l’ultimo giorno d’un viaggio,
e mentre scendo per ripartire,
un altro me sorseggia un thè nella hall»

 

Torna Giuseppe Bonaccorso con il suo flusso di pensieri alla James Joyce. Dopo le “Gocce di mercurio”, ecco di nuovo la particolare poesia dell’autore così attento alle parole e così alla ricerca di se stesso. La sintassi poetica s’infittisce, le parole ed i loro significati diventano più criptici ed i pensieri s’ingarbugliano.

Trenta le poesie raccolte nella silloge e i temi che trattano sono molto profondi ma allo stesso tempo contorti. «Temi che dovrebbero spingere la ricerca umana verso altezze inaudite. Altezze che, appunto, sono spesso causa di vertigine, ovvero di perdita del senso dell'equilibrio a causa dell'allontanamento repentino dei punti di riferimento», spiega lo stesso autore. E la ricerca di risposte esistenziali non avviene sempre in modo naturale, ma attraverso stimoli esterni ed anche interni, spesso non così definiti, “astratti” per l’appunto. E da qui le vertigini astratte, altro non sono che pensieri di elevata importanza tirati fuori da input interni per lo più senza un perché.

La fitta trama del tessuto poetico è resa ancora più particolare da voci fuori campo che, qua e là tra i versi, emergono attraverso citazioni in corsivo. Ma spesso non è solo il grillo parlante di Giuseppe Bonaccorso a parlare. Può essere il suo flusso di coscienza o semplicemente persone dal volto astratto che entrano e s’impossessano della poesia, sconvolgendone tutto il significato. O forse è la poesia stessa che prende coscienza e si anima. Parentesi e apici, quindi, sono simbolo di cambiamento, di ragionamento. E i punti di sospensione? Sono caratteristici dell’autore che lascia degli spazi appositi al lettore per riflettere ed interiorizzare ciò che assapora leggendo i versi.

Bizzarre sono le immagini che l’autore costringe a visualizzare nella mente del lettore. Dal «ventre umido di sabbia» alle immagini sprezzanti come «tra lenzuola ruvide come cartone», dalla similitudine «come il tapis roulant che dall’aeroporto vecchio, conduce verso il paradiso dei clochard» alle «istantanee appese come vecchi stracci al buio di una vecchia partitura». Ma sentirà parlare anche un morto della sua morte e del destino che i suoi oggetti avranno dopo la sua sepoltura, prendendo un biglietto di «prima classe per l’aldilà». E tra i temi principali ci sono proprio la morte e la stanchezza di vivere la solita routine, «una monotonia che ormai mi parla, senza riposo».

È una poesia che sa d’autunno, quella di Giuseppe Bonaccorso, di foglie cadute, stanche di stare appese, senza speranza alcuna. Eppure lui di viaggio parla, sotto forma di una scoperta interiore, e stimola un monologo logorroico con se stessi, in poesie lunghe quasi come se fossero un racconto prosastico. I sottotitoli delle poesie, sono sempre un’interfaccia con la realtà. Prova che l’astratta poesia deve far poi i conti con la cruda verità. E da Italo Svevo con “La coscienza di Zeno”, sembra poi approdare in qualche novella pirandelliana quando si legge in un sottotitolo, «ho negato il consenso per il mio numero sull’elenco», che poco ha di poetico e che porta solo in faccia alla realtà, quasi a sminuire l’eternità e la solennità della poesia.

Ma nelle strofe libere, senza alcun limite metrico o compositivo, si animano assurdità e controsenso, come “prendiamoci una pausa (atemporale, ovviamente)” e lascia in sospeso, senza una conclusione. Se vuole sarà il lettore a doverla trovare. Scatta foto di attimi catturati tra la folla, quella di cui tanto critica la stanca routine. Foto però, non conclusive, senza fine.

«In questa terra
è libero
solo chi tiene per mano
la sua interminabile
schiavitù»

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