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Universitari verso l’estinzione; Italia verso il sottosviluppo

Secondo il Consiglio Universitario Nazionale, le nostre facoltà hanno perso quasi sessantamila studenti negli ultimi dieci anni. Ne avevano 338 mila nell’anno accademico 2003/2004; ne hanno avuto 280 mila, il 17% in meno, nell’anno 2011/2012.

Questa è la peggior notizia immaginabile per il nostro paese che è già oggi tra quelli con la popolazione, e la forza lavoro, meno educate di tutta l’OCSE. Che si sta impoverendo, in termini reali, da decenni, e che non sembra riuscire a trovare le risorse per costruirsi un futuro migliore.

Peggio ancora, che sta sacrificando al mantenimento dello status quo l’avvenire dei propri giovani, quasi fosse, come di fatto è, governato da una generazione di avidi vegliardi privi di qualunque preoccupazione per chi verrà dopo di loro. Di Peter Pan dell’economia, se non della vita, che serrano gli occhi per non vedere come le risorse consumate, per mantenere i loro grandi e piccoli privilegi, finiscano ineluttabilmente per essere sottratte ad altri.

La retorica vuole che a pagare il prezzo della crisi siano stati i pensionati e i lavoratori del pubblico impiego. Palle. Le pensioni sono aumentate, in questi anni, seppur di pochissimo, e mentre i salari reali dei lavoratori del settore privato hanno subito un collasso (-15%, all'inizio della crisi. tanto per la mancanza di straordinari quanto per il diffondersi di nuove forme di contratto), quelli dei dipendenti pubblici non hanno perlomeno subito alcuna riduzione.

Il prezzo della crisi, tanto di quella finanziaria cominciata nel 2007, quanto di quella più lunga, strutturale, in cui siamo avvitati da decenni, grava proprio sui giovani. Sono loro i sottopagati, i precari, gli sfruttati da ogni possibile tipo di lavoro nero legalizzato. Sono stati loro, mentre i loro padri e nonni se ne andavano in pensione anni decenni prima dei loro colleghi del resto d’Europa, ad andare avanti senza diritti, per carità familiare. A non aver nessuna speranza di avere un alloggio a prezzo dignitoso, perché manca qualunque serio programma di edilizia pubblica, a doversi sposare ed avere figli senza il minimo aiuto, perché la famiglia è una valore solo nelle parole dei politicanti alla vigilia delle elezioni. A non avere, soprattutto, nulla di comparabile di quello che negli altri paesi europei è chiamato diritto alla studio. Un dato? Nell’esecrata Gran Bretagna post-thatcheriana, i figli di chi non ha titoli di studio hanno esattamente dieci volte più possibilità di arrivare alla laurea (40 contro 4%) dei loro omologhi del nostro meraviglioso paese, dove tutti difendono i diritti di tutti, ma a nessuno importa nulla dei giovani.

Sto spingendo alla guerra tra poveri? No. All’onestà intellettuale.

Bersani, pochi giorni fa diceva che la spesa pubblica italiana, non fosse per le pensioni, sarebbe in linea con quella degli altri paesi dell’Unione. Verissimo. Quello che però tutti tacciono è che a fronte di questa spesa i servizi siano di qualità pessima; i diritti dei cittadini inesistenti. Gli autobus fermi a Napoli perché mancano i soldi per il pieno di gasolio o i bilanci delle università sforbiciati di un 5% annuo dal 2009 ad oggi sono due facce della stessa medaglia; quella di una pubblica amministrazione in larga parte parassitaria, che costa senza produrre nulla, guidata da dirigenti di nomina politica incompetenti ed incapaci.

Non sono certo i soldi che mancano, al bilancio del nostro stato; nelle sue casse entra la metà del PIL italiano, una quota da Scandinavia. È lo spreco che questo denaro è fatto in pensioni elargite a chi non ne avrebbe avuto diritto, in stipendi che sono sinecure per gli amici degli amici, in appalti a prezzi contro ogni logica, alla radice di tanti dei nostri problemi.

Nel 1944, avendo una guerra mondiale da vincere, gli USA innalzarono fino al 94% le tasse sugli scaglioni di reddito più elevati; anche senza arrivare a quegli estremi, possiamo ancora trovare, dentro la nostra economia, le risorse per rimetterci in carreggiata (e garantire il diritto allo studio dovrebbe essere l’assoluta priorità. A costo di vendere il Colosseo ai cinesi). 

Tutto sarà inutile, però, compresa l’eventuale introduzione di una patrimoniale, se non cambia l’andazzo del nostro comparto pubblico. Se i denari dei contribuenti continueranno ad essere spesi a vuoto, solo per comprare consenso, in modo o nell’altro. È un discorso che non piace proprio a nessuno, che fa solo perdere voti, ma senza una profonda revisione (che non è sinonimo di riduzione) della spesa pubblica, come comunità nazionale non andremo da nessuna parte. Anzi, verso il secondo mondo, povero perché ignorante e ignorante perché povero a cui, dati alla mano, in fondo già apparteniamo.

Un’ultima cosa. I rettori sostenevano poco fa che per far tornare a funzionare decentemente le nostre università, che hanno perso il 22% dei propri docenti, dal 2006 ad oggi, e continuano a chiudere corsi per mancanza di fondi, sarebbero necessari 600 milioni. Una miseria in confronto ai 24 miliardi che si stima ci costi la politica. Di che mandare a quel paese tanti onorevoli e senatori, che fanno spreco di alte e nobili parole, ma non trovano proprio nulla di sconveniente nei propri stipendi (ricordiamolo sempre: ognuno dei nostri tribuni guadagna quanto Obama).

Un discorso populista? No, discorsi da sepolcri imbiancati, da bigotti, tanti di quelli che si sentono anche in questa campagna elettorale.

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